Caro Alcide
Pino Loperfido, Caro Alcide, Curcu & Genovese, Trento, 2003, pp.154, euro 12. Una lettura antipolitica della storia: un "uomo solo", a contatto diretto con il "popolo", compie il miracolo di evitare una guerra civile.
Io, trentino di nascita e di formazione, ho incominciato a insegnare la storia, in una scuola superiore, fornito di laurea, nel 1969, senza sapere che Alcide De Gasperi non era mai stato un irredentista. I manuali di storia, al liceo, non si occupavano di queste cosucce, né del fatto che il Sudtirolo non era una terra italiana, come il Trentino, da annettere serenamente al regno d’Italia, dopo aver vinto una guerra. Il mio manuale era "Lineamenti di storia", di G. B. Picotti e G. Rossi Sabatini (La Scuola, 1959). Anche all’università, "Il cammino umano", di Armando Saitta (La Nuova Italia, 1965), seppure di altro orientamento politico, osservava sulla questione un rigoroso silenzio. E i programmi si fermavano alla prima guerra mondiale, trattata così: sul fascismo, sulla resistenza, sulla costituzione, sull’Italia repubblicana, qualche appunto, a volo d’uccello.
Fa quindi bene Pino Loperfido a denunciare l’ignoranza, trascinata fino ai giorni nostri, della storia contemporanea: "Sappiamo tutto di Asdrubale, di Carlo Martello, conosciamo i nomi di tutte e sei le mogli di Enrico VIII e non sappiamo nulla di chi fino all’altro ieri faceva, la Storia".
Il governo dell’Ulivo, per la verità (ministro Luigi Berlinguer), assegnò all’insegnamento del Novecento l’intero ultimo anno di corso: il decreto suscitò mille polemiche, ma venne scritto, e incominciò il suo cammino, ad ostacoli. Una ricerca dell’Iprase ha scoperto che in Trentino fino al 1948 oggi si arriva, ma gli ultimi cinquant’anni no, questi non sono insegnati. Troppo faticosi, e spinosi. Letizia Moratti non se l’è sentita di abrogare il decreto, ma le commissioni d’esame interne alle scuole l’hanno in realtà abbandonato nelle mani degli insegnanti più motivati, e già preparati.
Loperfido ricostruisce in "Caro Alcide, storia di un italiano" la biografia dell’uomo politico, dalla nascita a Pieve Tesino, nel 1881, alla morte, a Sella Valsugana, nel 1954, dall’Impero austro-ungarico all’Italia repubblicana. Vi incontriamo Cesare Battisti e Mussolini, Luigi Sturzo e Palmiro Togliatti, Pio XII e Giulio Delugan. Soprattutto i familiari, la moglie e le figlie. Perché, parole di Giulio Andreotti, nel risvolto di copertina, "è importante che gli anziani ricordino e che i giovani conoscano questa stupenda e inimitabile figura di statista e di uomo." La tecnica di scrittura è originale: una lunga lettera inviata al protagonista, inframmezzata da fonogrammi e da dialoghi nel dialetto di Borgo, accompagnata da fotografie politiche e familiari.
Loperfido è convinto che la storia sia narrare "i fatti, nudi e crudi". Come Leopold von Ranke, che scriveva nell’Ottocento: "Come le cose sono andate realmente". Forse, per la corretta grafia del cognome ce la possiamo fare: "Degasperi", è la sentenza. Ma quando, in seconda di copertina, si afferma che "non c’è nessuna possibilità di errore nel considerarlo il più grande Statista italiano del Novecento", è questo un "fatto nudo e crudo", un "narrare le cose come sono andate realmente"?
I fatti sono intrisi di teoria, è lo storico che li seleziona e li ordina. Al passato guardiamo dal presente, mossi dai problemi di oggi. E’ un adesso, necessario e corposo, a guidarci nell’assumere il punto di vista. La storiografia è confronto, anche polemico, di interpretazioni.
Infastidisce perciò, scriviamolo con tutta franchezza, l’autopresentarsi dell’opera come "un racconto pulito e onesto, decisamente lontano da quei pregiudizi ideologici che per 50 anni, in Italia, hanno contrapposto alla Storia realmente accaduta una storia alternativa, propagandistica e mitizzata." Di chi si sta parlando, chi si sta accusando, nel tracciare questa "storia di un italiano mite, ostinato, ma pure timido; un italiano che ha rifatto il suo Paese" ?
Riprendo in mano il manuale del liceo, e leggo un elogio: "Il trentino Alcide De Gasperi attese con grande impegno e notevole successo a ricostruire l’Italia e a farle riottenere il posto, che le spettava, fra le nazioni". Il manuale dell’università, sul dopo ’48, è più critico: "L’irrigidimento della vita politica italiana in blocchi contrapposti indusse il partito dominante… a quel periodo che, autorevolmente, è stato definito della ‘inadempienza costituzionale’", tuttavia si riconosce a De Gasperi l’organizzazione del referendum istituzionale, e della prima consultazione elettorale che ci darà la Costituzione.
La "Garzantina", l’enciclopedia che tengo da sempre sul tavolo, a cui ricorrere con rapidità per ogni evenienza, conclude così la voce "De Gasperi": "Statista equilibrato e realista, si oppose alle tendenze integraliste presenti nel suo partito e presiedette fino al 1953 i governi di coalizione con i partiti di ‘centro’ che diressero la ricostruzione economica. Fautore dell’alleanza atlantica e convinto europeista, propugnò le istituzioni comunitarie europee e propiziò la soluzione del problema di Trieste". Dov’è il pregiudizio, la propaganda?
Quando, prima che ci arrivasse il ministro, mi decisi a insegnare ai giovani anche la storia degli ultimi anni, divenne il mio testo di riferimento "Storia e problemi del mondo di oggi", di Antonio Gambino (Laterza, 1980). Alcide De Gasperi vi è presentato come una figura controversa, fra luci e ombre. Nella sezione antologica, sulla "figura dominante del secondo dopoguerra", per quanto riguarda i rapporti fra lo Stato e la Chiesa, è riportato il giudizio di due storici di diverso orientamento, il cattolico Pietro Scoppola e il comunista Giampiero Carocci.
Secondo Scoppola il merito politico di De Gasperi fu quello di "riconquistare la Chiesa alla democrazia", quando al suo interno, dopo la fine del fascismo, era ancora forte l’ipotesi di affidarsi a un regime autoritario di destra sul modello franchista spagnolo. Il prezzo pagato, in questa alleanza con i ceti moderati borghesi, fu di sacrificare le aperture, le intuizioni più generose del mondo cattolico che usciva dal fascismo.
La Democrazia cristiana di De Gasperi, secondo Carocci, ha assicurato la stabilità senza frenare lo sviluppo, ma ha impedito il rinnovamento dello Stato uscito dal fascismo. La definizione, "un partito di centro che si muove verso sinistra", è stata contraddetta dalla politica seguita in concreto.
Perché Pino Loperfido pare sordo a questo dibattito? Non è solo perché presta un’attenzione legittima, calorosa, agli aspetti familiari, privati, dell’uomo. E’ che il suo punto di vista, implicito, è poco politico.
La coincidenza è casuale, ma significativa. L’autore è nato nel 1968. Ma il sessantotto, nella sua ricostruzione, è ridotto alle "piazze, ancora loro, minoranze esagitate pronte ad arrogarsi i diritti di tutti". L’analogia suggerita è quella con le piazze, le minoranze, "l’odio… sempre lui", che spinsero l’Italia nella prima guerra mondiale, e poi nel fascismo, e nella guerra civile ("altro che Resistenza").
Sull’orlo di una guerra civile l’Italia si trova anche dopo il 1945, più volte. E De Gasperi, quasi deus ex- machina, la evita, ma non operando con altri a firmare il patto fra forze che ci costituisce in nazione, la Costituzione. Le forze politiche, non solo gli alleati, e gli avversari, ma anche la Democrazia Cristiana, in questo libro sono comparse, quasi assenti. Giuseppe Dossetti, l’interlocutore di sinistra nel partito, poi sacerdote, è cancellato anche dal dizionarietto.
La data che ha segnato in Italia la storia è il 18 aprile 1948: lì è "la consacrazione della libertà". In una storia di disordine e caos, De Gasperi, "uomo solo", a contatto diretto con il "popolo", compie il miracolo. Quando Silvio Berlusconi si proclama di De Gasperi il vero erede, è a letture antipolitiche come questa che può richiamarsi.
Anche della religione questo De Gasperi dà un’interpretazione politica conservatrice. Così Loperfido racconta il dibattito con Nenni e Togliatti che nel 1945 non vorrebbero lasciargli la guida del governo: "Guardate, che vi piaccia o no, l’Italia rimane un paese profondamente cattolico." E commenta: "E avevi ragione, amico mio. Non possono bastare vent’anni di fascismo, non sono sufficienti pochi mesi di Resistenza a capovolgere una tradizione lunga migliaia di anni".
C’è una cartina di tornasole. A leggere la Resistenza, e il cattolicesimo, in questo modo, si finisce con il negare che è il problema degli stranieri a interrogarci oggi in profondità. Ci sono dei "benpensanti" - così li chiama - che "arricciano il naso": "c’è chi dice che trattiamo male gli stranieri, gli africani, gli arabi…".
Al nostro giovane autore il ’68 l’hanno raccontato un po’ in fretta. Invece fu allora, oltre tutto, che gli studenti pretesero che le finestre delle aule si aprissero, e vi venisse insegnata anche la storia contemporanea. Loperfido ne è un erede, senza saperlo.