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QT n. 6, 20 marzo 2004 Classica

La classe di Gerhard Oppitz

Con la stella del pianismo Oppitz un concerto dell'orchestra Haydn con qualche incertezza.

Un concerto che riunisce, in poco più di due ore, un brano contemporaneo, uno storico cavallo di battaglia per pianoforte e un pezzo semisconosciuto, non può avere che un andamento discontinuo. Così è stato, venerdì 12 marzo, per il concerto della stagione Haydn: momenti gradevolissimi si sono alternati ad altri meno piacevoli. Come annunciato, sono state eseguite Insula Deserta, per archi, di Erkki-Sven Tüür, il Concerto per pianoforte n. 5 in mi bemolle maggiore, Op.73 di Beethoven e la Sinfonia in do maggiore di Bizet.

Gerhard Oppitz.

Il brano di Tüür ci ha colpiti e conquistati, il concerto di Beethoven ci ha convinti solo nella parte solistica, mentre la sinfonia di Bizet costringe all’incertezza. Insula Deserta ha inizio su una singola nota, eseguita dai violini primi, che si dipana lenta come un filo di lana e coinvolge tutta l’orchestra, dopo poco, la partitura pare prendere coraggio ed estendersi a più accordi. La rassicurante melodia omogenea e armonica viene rotta a più riprese da inserti discordanti, ma subito recuperata. Gli spezzoni sonori che vengono così creati ricompongono un disegno di volta in volta diverso, eppure, dalla distinta continuità. Anche nel pizzicato impazzito dei violini secondi, anche nel rincorrersi di violini primi e violoncelli, è forte l’unitarietà di fondo dello spartito. La suggestione generata dal titolo rimanda, poi, ad un’immagine di scoglio aspro, in mezzo ad un mare grigio, al quale la musica ci fa avvicinare, come se fossimo dei gabbiani sospinti dal vento.

Quando è stato spostato il pianoforte e Oppitz è giunto sul palco, c’è stato un’improvviso cambio di atmosfera, come se il ritorno ad una tradizione più ottocentesca non fosse solo previsto dal programma musicale. La presenza di questo grande pianista di origine bavarese ha conferito solennità alla serata. L’esibizione di Oppitz al pianoforte è stata dolce e precisa. Le dita non parevano che sfiorare la tastiera. Peccato che una così soave prestazione del solista fosse incalzata dall’orchestra, spinta ad un ritmo, forse, eccessivo. Si sa che, in questo particolare concerto, è espressamente richiesto al pianoforte di avere un ruolo diverso da quello usuale. Si vuole un pianismo virtuosistico, ma contenuto, e integrato nell’orchestrazione al pari degli altri strumenti. In questo caso, però, Oppitz ha interpretato questi dettami con molta classe, ma l’orchestra, al confronto, è parsa debole. La sinfonia di Bizet è scivolata via, in un altalenare di riferimenti alle simmetrie di Haydn e alla passionalità di Beethoven. Appare evidente la giovinezza del compositore (del resto, si tratta dell’opera di un diciassettenne), che era però già tanto geniale, da scrivere un Adagio sentimentale e toccante con il giusto equilibrio.

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