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Due sentenze

Un caso di giustizia ingiusta e una sentenza innovativa.

Salomone avrebbe certo giudicato meglio della Cassazione nel caso che ora vi racconterò, tacendo per doveroso riserbo i nomi dei protagonisti. Due genitori extracomunitari, marito e moglie, avevano inserito i propri figli in un programma di scolarizzazione avviata dall’amministrazione del Comune di Fermo, nelle Marche.

Nel frattempo il loro permesso di soggiorno viene a scadere e il Prefetto, in ossequio alla legge, emette l’ordine di espulsione. Contro il provvedimento i genitori ricorrono al Tribunale dei Minori, che prendendo atto dell’iniziativa del Comune di Fermo, secondo cui i bambini erano stati inseriti in un programma di studio e frequentavano le scuole elementari del Comune, accoglie il ricorso autorizzando i genitori a restare in Italia per non arrecare danno ai figli che sarebbero rimasti privi non solo dei mezzi di sostentamento, ma sopra tutto degli affetti familiari. Decisione giusta ed equa, non accecata dalla interpretazione letterale della legge.

La Cassazione civile purtroppo è stata di parere contrario. Con sentenza n° 3991 del 19 marzo ha osservato che la decisione del Tribunale dei Minori aggira la norma sull’immigrazione. Le uniche ipotesi infatti che consentono la permanenza dopo il decreto di espulsione sono motivi di urgenza di natura provvisoria. Secondo la Cassazione civile la scuola non è provvisoria e non è neppure urgente. Di conseguenza ha annullato la sentenza del Tribunale dei Minori, confermando l’ordine di espulsione.

E’ chiaro, almeno per me, che il Supremo Collegio ha sacrificato il buon senso al formalismo interpretativo.

Che fare ora? Lasciare i bambini da soli in Italia sarebbe una crudeltà, e si aprirebbero grossi problemi di assistenza e di adottabilità. Meglio allora toglierli dalla scuola (comunale, non privata!) e rispedirli via per sempre con i genitori.

Contraddizioni nello Stato, si potrebbe commentare, lo Stato contro se stesso, la norma prima dell’uomo, il nodo di Gordio tagliato con la spada invece che sciolto con pazienza, con accortezza, con rispetto dei soggetti coinvolti. Ci voleva poco, e il Tribunale dei Minori aveva indicato la rotta giusta. Ma questa volta la nave della Cassazione è naufragata nel porto, indifferente alla sorte dei genitori e dei figli.

Nel lontano 1976 una nube tossica di diossina uscì dagli stabilimenti chimici della Icmesa di Seveso a causa dello scoppio delle caldaie. Il fatto ebbe grande notorietà per le dimensioni del disastro ambientale e per l’allarme destato nella popolazione. Da quell’evento ebbero origine numerose cause civili e penali per stabilire le responsabilità, l’entità dei danni, la quantità del risarcimento. Una di quelle cause si è conclusa da poco tempo (dopo oltre 21 anni dall’inizio) con una sentenza innovativa della Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili, n° 2515 depositata il 21 febbraio scorso.

La decisione è destinata a modificare sensibilmente i criteri risarcitori, perché ha stabilito il seguente principio di diritto: "In caso di compromissione dell’ambiente a seguito di disastro colposo (art. 449 cod. pen.) il danno morale ‘soggettivo’ lamentato dai soggetti che si trovano in una particolare situazione (in quanto abitano o lavorano in detto ambiente) e che provino in concreto di avere subito un turbamento psichico (sofferenze e patemi d’animo) di natura transitoria a causa dell’esposizione a sostanze inquinanti, ed alle conseguenti limitazioni del normale svolgimento della loro vita, è risarcibile autonomamente anche in mancanza di una lesione all’integrità psicofisica (danno biologico) o di altro evento produttivo di danno patrimoniale, trattandosi di reato plurioffensivo che comporta, oltre all’offesa all’ambiente e alla pubblica incolumità, anche l’offesa ai singoli pregiudicati nella loro sfera individuale".

Prima di questa sentenza, in base agli articoli 185 codice penale e 2059 codice civile, il danno morale era risarcibile solo se conseguenza di un danno ai beni o alla persona. Ora la dicotomia danno-evento (per esempio, lesione) e danno-conseguenza (sofferenza psichica) diventa una mera sovrastruttura, anzi in realtà un impaccio teorico perché una corretta lettura dell’art. 185 del codice penale pone come unico presupposto per la risarcibilità del danno morale la presenza di un fatto reato (nella specie il disastro colposo) che abbia provocato anche solo il turbamento psichico della vittima.

L’art. 18 comma 1° della legge n° 349/86 sulla tutela ambientale stabilisce che "qualunque fatto colposo o doloso in violazione di leggi che comprometta l’ambiente ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato". Da tale norma si deduceva che legittimato a chiedere il risarcimento fosse solo lo Stato e non il singolo individuo.

La sentenza delle Sezioni Unite civili n° 2515, che ho sopra ricordato, rovescia questo principio e afferma che sono degni di tutela, per quanto riguarda il danno morale "soggettivo", anche i singoli abitanti della zona, compiendo così una significativa innovazione giurisprudenziale.

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