Luce dei miei occhi
La stagione cinematografica autunnale ha preso il via con un film italiano presentato a Venezia e premiato con la Coppa Volpi ai migliori attori, Sandra Ceccarelli e Luigi Lo Cascio; ulteriore esempio che la "primavera" del cinema italiano continua.
"Luce dei miei occhi" è diretto da Giuseppe Piccioni, già apprezzato da critica e pubblico in "Fuori dal mondo", di cui qui mantiene spirito e atmosfere umane e ambientali; infatti si tratta di personaggi afflitti da una condizione di disagio ed estraneità, non al passo con le richieste del mondo intorno, gravati e resi irresoluti da un senso costante di non appartenenza nella città dove vivono. Quest’idea emerge sin dalle prime inquadrature, comunicata e sviluppata poi attraverso la vicenda e le modalità stilistiche, facendosi senso del film. Se le critiche a caldo da Venezia sono state piuttosto severe, forse sbrigative e affrettate, una visione paziente riconosce invece, perdonata una certa ridondanza, una regia che non indulge a banalità e si cimenta con la complessità della vita e dei mezzi espressivi cinematografici, tradotta qui in complessità linguistico-strutturale e tematica. Col risultato di suscitare interesse e coinvolgimento, di essere emotivamente avvolgente col suo andamento tra l’incantato e il sonnolento, fuori dai canoni del realismo e della tradizionale commedia.
La storia, che si snoda con una struttura assai articolata, potrebbe essere solo una storia d’amore ed è invece dilatata ad una storia di vita, in cui l’amore si afferma nel disincanto, con difficoltà, tra persone dai caratteri solitari, in un contesto di fatto composito, in cui variegati personaggi si innestano. Una voce over si sovrappone alle azioni separate dei protagonisti, con la lettura di racconti fantascientifici imperniati su Morgan, finito tra stelle e meteore, e infelici ultracorpi, che si fa alter-ego di Antonio e interprete di pensieri e storie suoi e dei personaggi reali, tutti, gli extraterrestri e i terrestri, degli alieni, estranei nel mondo che li ospita. Estraneità visualizzata con scialbe luci grigio-azzurre, colori freddi e smorzati, assenza di rumori e suono di note struggenti, così che persone e azioni normali sembrano immerse nell’irrealtà, diluite nella durata, segmentate dal ralenti, che annebbia i contorni di cose e sentimenti: a dare quel senso di inadeguatezza dello stare nel mondo, di incomunicabilità fra personaggi e ambienti di cui non sono mai parte pur standoci dentro. E proprio questi mondi ospitanti che lasciano estranei sono, per contrasto, di un forte realismo, quotidiano e crudo, dove qualche flash di calore e di intensità emotiva si accende e dà speranza.
La storia narrata è quella di Antonio e Maria, vicino ai quali essenziale è la presenza silenziosa ma viva di Lisa, la figlia di lei, ancora bambina. Non sono persone vincenti ma nemmeno perdenti, non hanno situazioni tragiche né alle spalle né nel presente; con le parole del regista, "hanno solo un difetto di fabbricazione", che gli impedisce un’armonia qualsiasi e li tiene invece sospesi e soli, avvolti in nebulose incertezza e ambiguità di esistere. Antonio fa l’autista di taxi, disponibile e gentile sempre con tutti, ma c’è qualcosa in lui che lo rende alieno, una solitudine, una mitezza, una negazione verso normali cose cui i suoi simili aspirano, che ne fanno una persona a parte. Maria è molto diversa, impigliata sempre in amori sbagliati, afflitta da antica disistima di sé, con un carattere chiuso e diffidente che la isola, disposta comunque a rimettersi in gioco; Lisa è per lei l’unica vera consolazione e fonte di energia vitale, anche se pure nel ruolo di madre asprezze e inadeguatezza la rendono chiusa a gesti e tenerezze che fanno l’amore materno tangibile, come Lisa si attende, spesso delusa.
L’incontro casuale tra Antonio e Maria accende però un’improvvisa luce reale, le due solitudini a contatto reagiscono in modi diversi, arrancano tra difficoltà e incomprensioni; Maria inasprisce la sua triste durezza, scostante fino all’antipatia, mentre il paziente Antonio si dedica a lei fino al sacrificio; malgrado tutto, questo rapporto, rattrappito e inadeguato ma vero, pare sopravvivere, nel fluttuare in un mondo alieno verso il reciproco faticoso accettarsi e verso un amore in cerca di riconoscimento.
Il lavoro di regia è molto sottile, specie riguardo a questi protagonisti, seguiti, in una quasi identificazione, nelle sfumature del carattere e nelle pieghe delle psicologie. Sia i personaggi (anche i minori, clienti, extracomunitari, approfittatori, in comune infatti tutti hanno disillusione e disorientamento, pure il cinico Silvio Orlando, indifferente e sprezzante, ma preda di intime inquietudini, svelate solo ad Antonio), sia l’ambiente, una Roma grigia, inusitata e inaccogliente, passano attraverso lo sguardo vigile del regista, che, capitato per caso a Roma, vi si è fermato, vivendo lo spaesamento, che ancor oggi gli procura un senso di provvisorietà, come lui dice.
Tutto questo, con malinconia e riservatezza, quasi in sordina, racconta il film di Piccioni, senza punti d’arrivo, senza una definizione, trainato in un moto che non conduce in alcun luogo, materiale o interiore, ma prosegue in una deriva fatta di incompiutezza e titubanze, eppure mai pessimista.