Un Oreste da salvare
Coro e orchestra si alzano. Gli attori tornano in scena. Ringraziano. Ripetuti applausi per l’"Oreste" di Rocco Sestito, ma alcuni spettatori sono immobili, in silenzio. Fra questi anche noi, troppo dubbiosi per unirci allo slancio generale. Euripide e Kieslowski, due Elettra, parti lente e concitate, Oreste che muore come un Cristo! Difficile orientarsi. Ci attardiamo in platea per cogliere e scambiare commenti a caldo. Si va dagli entusiasti agli spietati, dalla "bufala" al geniale. Reazioni simili, si parva licet, suscitarono "Sei personaggi in cerca d’autore" e "La sagra della primavera". Ma si trattava di Pirandello, di Stravinskij… un regista locale è anche solo lontanamente paragonabile? Ogni terra è campanilista, soprattutto se un’opera l’ha appoggiata e finanziata (qui sono in ballo Comune, Università, ASUT). E spesso, di questo passo, si va molto oltre il lecito… Ma ciò non ci autorizza a malignare: coi veleni e gli sfottò non si fa molta strada.
Tecnicamente, questo "Oreste" ha innegabili difetti, dalla recitazione al coordinamento (ad esempio, l’orchestra in piedi anzitempo, a discapito di chi siede in prima fila); ma una denuncia della pena di morte non lascia indifferenti. Che poi la resa non sia delle migliori è un altro discorso, e i pregi qui non mancano. Il coro torna personaggio, irrompe ai lati del teatro torce in mano, e a dramma inoltrato rende omaggio sul palco alla tomba di Clitemnestra. Coraggiosa, poi, la scelta d’intrecciare la trama, seguita fedelmente, col film di Kieslowski. "Decalogo 5", traendo spunto dal quinto comandamento, "Non uccidere", accusa l’impotenza del sistema giudiziario contro la pena capitale in Polonia. Piotr, un giovane avvocato, non riesce a salvare il suo primo assistito, il cui destino nella pièce di Rocco coincide con quello di Oreste. Il dilemma della giustizia privata (Oreste e Pilade tentano di uccidere anche Elena ed Ermione, la figlia di Menelao) è qui secondario; centrale è lo ius vitae et necis dello Stato verso il cittadino.
Il mito però parla chiaro: da che mondo e mondo, Oreste è purificato e assolto ad Atene. Perché inventare un epilogo diverso, ad uso e consumo del regista? Nessuno scandalo. Gli antichi, compreso Euripide, facevano la stessa cosa; è indice di vitalità. L’immaginario si evolve anche nel terzo millennio: Apollo, deus ex machina, non interviene. E’ l’assenza "del dio" e "di Dio". Oreste, nuovo Cristo immolato dagli uomini, tace. Gesù disse: "Qualunque cosa farete al più piccolo fra voi, l’avrete fatta a me", ma il vangelo di Oreste è senza speranza, come quello di Pasolini.
Riuscite le performance di Francesca Pegoretti (Clitemnestra), Massimo Lazzeri (Oreste) e Gabriele Penner (più come Piotr che come Pilade); bravi, ma un po’ acerbi, Marco Berlanda (Tindaro/giudice) e Paola Gaddo (Elettra, la parte più impegnativa). Non ha convinto, nonostante il physique du rôle, il Menelao di Fulvio Medeot. Splendida invece il soprano Maria Letizia Grosselli, doppio di Elettra negli intermezzi onirici. La parte "orchestrale" è in genere la più notevole con brani dissonanti per il coro e belle musiche per archi di Eddy Serafini, che sembrano uscite (e forse lo sono) da una colonna sonora.
Un’opera valida, dunque, che andrebbe "affinata", sebbene la forma resti il mezzo, non il fine: "passione e ideologia" vengono prima. Non dimentichiamo che i Greci, pur passando per esteti, le tragedie se le rappresentavano e se le applaudivano; e noi le apprezziamo anche se gli attori, ad Atene, non erano certo professionisti…
Compagnie locali come la Emit Flesti sono degli epigoni e non useremo due pesi e due misure in base a simpatie e preconcetti. Qualche consiglio, però, vorremmo darlo: 1. presentare la pièce come "da" Euripide e non "di"; 2. fornire in sala un libretto con le traduzioni dei versi originali; 3. curare maggiormente la dizione e la pronuncia del greco.
Per il resto, auguriamo a Sestito di varcare i confini regionali, in barba ai detrattori.