Ritornare in Kossovo?
La pulizia etnica continua. Stavolta contro i serbi, con la compravendita delle case.
Il capitano Migliozzi prende la parola. Rappresenta la KFOR all’incontro bisettimanale che si tiene negli uffici dell’UNHCR e riguarda le attività delle agenzie internazionali e delle Organizzazioni non governative sulla tematica delle minoranze. Il suo inglese è fluido, anche se l’accento italiano è difficile da nascondere.
Descrive le attività della KFOR nelle ultime due settimane: "Abbiamo anche iniziato ad individuare alcune zone e villaggi dove le condizioni di sicurezza permetterebbero delle visite degli sfollati rom e serbi attualmente fuori dal Kosovo..."; e poi guardando la rappresentante dell’UNHCR e sorridendo: "Veronique ha continuato ad insistere in questi giorni in merito a quest’aspetto".
Veronique, palesemente imbarazzata, nega questo suo interesse e cerca di attenuare l’impatto delle parole del capitano Migliozzi sui presenti. L’Alto Commissariato per i Rifugiati non ha ancora resa ufficiale attraverso un qualsiasi documento programmatico la propria posizione riguardo al ritorno delle comunità che hanno dovuto abbandonare la loro terra nell’estate del ’99. La stessa Veronique ci aveva chiarito come l’UNHCR attualmente non promuove alcun ritorno, ritenendo non vi siano le condizioni di sicurezza nemmeno per organizzare su larga scala delle "go and see visits", delle visite di un giorno degli sfollati alle loro case. L’UNHCR non promuove alcuna attività di questo tipo, solo nel caso vi fosse uno sfollato che a tutti i costi vuole far rientro, allora si cerca di sostenerlo.
Questa posizione va in questi giorni pian piano evolvendosi e ci si aspetta che a giorni venga pubblicato un documento redatto da tre saggi nominati dallo stesso Alto Commissariato dei Rifugiati che chiarisca la politica e posizione dell’UNHCR per quanto riguarda il ritorno degli sfollati in prevalenza residenti in Montenegro e nel sud della Serbia. Da qui il pudore di Veronique, che pur iniziando a lavorare su questa tematica cerca di mantenere tutto su di un livello totalmente informale.
"Il Kosovo avrà la sua indipendenza solo quando i kosovari saranno pronti ed in grado di mantenerla. E questo implica anche riconoscere il diritto al ritorno dei serbi, naturalmente con i loro diritti, ma questi ultimi devono rendersi conto di essere una minoranza. - ci dice un dipendente kosovaro dell’UNHCR - Ma serve tempo, la comunità internazionale deve stare attenta a non forzare la situazione, a restare defilata; solo il tempo sarà in grado di guarire le ferite". O di cicatrizzarle, lasciando lo status quo.
AKlina, municipalità a nord di Pec/Peja, metà delle case appartenevano alla parte serba della popolazione. "Più della metà di queste case sono già state acquistate da personaggi molto vicini all’UCK. Ai proprietari serbi vengono offerte cifre rilevanti, fino a 250.000 marchi tedeschi per una casa distrutta. Gli intermediari si ritrovano in Macedonia e concludono il contratto di compravendita. - ci dice Vincent, che lavora come interprete per una ONG italiana - I soldi vengono dal fondo ‘La patria chiama’, istituito durante la guerriglia dell’UCK contro il regime di Milosevic e dal budget del governo ombra creato dalla comunità albanese durante gli anni di discriminazione". Questi fondi non sono stati utilizzati per la ricostruzione del Kosovo. Vengono utilizzati ora per sancire ulteriormente la pulizia etnica a danno delle comunità non-albanesi e per consolidare il potere de-facto degli estremisti usciti dai mesi di guerra nel ’99. "Volessi io comprare una di quelle case, non potrei; - ci dice Vincent - sono vendite controllate, legate a determinati clan di persone".
Di fronte a questo, UNMIK, KFOR ed UNHCR restano totalmente passivi. Quando tra un anno si cercherà di iniziare ad implementare quei documenti programmatici riguardanti il ritorno delle minoranze - documenti a tutt’oggi ancora inesistenti - le proprietà serbe a Klina saranno quasi tutte legalmente vendute e così probabilmente in molte altre parti del Kosovo.
Una rappresentante dell’UNHCR di Podgorica ci faceva notare come il decidere se far ritorno o meno in Kosovo dovesse essere una questione prettamente personale. Questa libertà di scelta va difesa e rispettata, ma la scelta individuale dipende anche da fattori collettivi sui quali occorre riflettere e lavorare, proprio per garantire poi la scelta individuale. "Io vorrei ritornare - ci diceva un signore in un campo collettivo di Berane, nel nord del Montenegro - ma solo se anche altri faranno la mia scelta, non voglio ritornare da solo. Se tutti vendono venderò anch’io".
Pochi fino ad ora sono intervenuti in Kosovo cercando di lavorare con tutte le comunità che vi abitavano prima dello scoppio della guerra. Nessuno ha tentato di mantenere i contatti tra le comunità fuggite ed i loro luoghi d’origine. Tra Berane e Pec/Peja solo 70 chilometri. In linea d’aria ancor di meno, in mezzo solo le cime di alcune montagne. Ma per gli sfollati un abisso. E nessuno ha ritenuto importante riuscire a lavorare al di qua ed al di là di quelle montagne. Con tutte le comunità originarie del Kosovo contemporaneamente. Certo molti avevano progetti sia in Kosovo che in Montenegro. Ma una struttura organizzativa pensata per paese-regione e non interregionale e trasversale. E diventa a volte molto più difficile recuperare dei legami spezzati che non coltivare, migliorare, salvaguardare dei legami e delle vicinanze già esistenti.
Nonostante un senso di impotenza, scoramento e disillusione negli internazionali che lavorano in Kosovo per un "esperimento" nel quale ci si è imbarcati senza aver alcuna idea di dove avrebbe portato e di come ci si sarebbe arrivati, ci sono anche dei piccoli segnali che tengono viva la speranza.
E’ Vincent che si lamenta della politica di chiusura e nazionalista attualmente egemone in Kosovo, che si lamenta dei ritratti degli eroi dell’UCK che tappezzano i muri delle classi nelle scuole di Pec/Peja: "A questi bambini non si deve inculcare nella testa la mitologia della guerra. - ci dice - Anche mio cugino è stato ucciso durante la guerra, ma non era un eroe, era una persona normale, una vittima".
L’onestà e la limpidezza di queste parole rincuorano. Se sarà la posizione di questi kosovari a prevalere, probabilmente nel futuro avremo un Kosovo multietnico, tollerante e non importerà più se indipendente o meno.