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QT n. 6, 24 marzo 2001 Monitor

Invito alla tolleranza

"Billy Elliot" di Stephen Daldry, "Chocolat" di Lasse Hallström, "Il gusto degli altri" di Agnés Jaoui.

In controtendenza rispetto al compiacimento, finora dominante, di mettere in scena violenze, efferatezze, un male intelligente e vincente, sono passati sugli schermi alcuni film, forti di un grande successo all’estero, che mutano infine l’oggetto del loro narrare: qui il pregiudizio, per lo più culturale, che separa le persone, anche in modi appena percettibili ma profondi, vinto dalla forza della tolleranza e della curiosità che invece le avvicinano. Il pubblico ha risposto affluente, quasi a dire che tale tematica è un’esigenza viva, che il desiderio di più aperta disponibilità tra persone trova gratificazione, almeno per le due ore della finzione filmica, nel potersi rispecchiare in situazioni a lieto esito, dove si lasciano aperte le porte alle possibilità individuali, consentendo un’immedesimazione positiva, che dà piccola tregua allo stress della realtà, riconciliando anche con lo schermo. A volte i modi cinematografici sono troppo accattivanti, persino didascalici, oppure palesemente mirati a creare sicure emozioni, a volte sono abili e autoriali. Ma poco importa, lasciano comunque una sensazione di leggerezza e forse un qualche ottimismo in più, come testimoniano i commenti all’uscita.

Ecco così "Billy Elliot" dell’esordiente Stephen Daldry, un percorso di formazione con prove da superare e successo al traguardo, che alterna i toni del musicall, del melodramma, del realismo, cedendo talvolta alla retorica o affrettando gli snodi narrativi; un’iniziazione alla vita dell’undicenne Billy, figlio di minatori, dotato di talento per la danza classica, che deve superare l’ira stupita della famiglia che preferisce la virile boxe e i pregiudizi verso la danza maschile veicolo di omosessualità, e le misere condizioni economiche; ma la passione è così forte, la voce dell’arte così imperiosa che riuscirà nella piena realizzazione del suo sogno.

E poi "Chocolat" di Lasse Hallström, fiabesco nella concatenazione di eventi al limite dell’irreale: attraverso l’incontro tra un villaggio di gente bigotta e ostile ad estranei e diversi, una donna straniera, bella, aperta ad esperienze e persone, dedita all’attività di cioccolataia che dispensa delizie dolciarie, capaci di riscaldare i cuori e risvegliare vitali istinti sopiti, e corrompere così l’integrità e l’austero ordine vigenti, un gruppo di gitani tra cui un giovane attraente che segue il richiamo di cioccolata e amore, si comunica, in modo simpatico ma semplicistico e generico, il valore della tolleranza verso culture diverse e il diritto alla soddisfazione e al piacere, che accrescono l’umanità di ognuno.

Ma il più interessante e raffinato ci sembra "Il gusto degli altri" di Agnés Jaoui, regista al suo primo film, ma già nota ed esperta sceneggiatrice, a quattro mani col marito Jeanne-Pierre Bacri, dei lavori di Alain Resnais, la cui influenza aleggia su tutto il film: anche qui sono entrambi sceneggiatori, e interpreti, straordinari in ogni ambito in cui si addentrano.

E’ un film di storie incrociate normali, senza eroi e fatti eclatanti, con personaggi che trascorrono vite comuni e fanno cose comuni, vivendone fino in fondo illusioni e delusioni, col fine di vivere, appunto, non di vincere. Eppure, o proprio per questo, è un film appassionante, in cui si entra curiosi e partecipi dello svolgersi della quotidianità di quella articolata storia corale dal tocco francese e ironico; dove la musicalità, che ne è carattere primo, è insita in movimenti, gesti e sguardi, e nella parola che è alimento di un ritmo fluente e ciclico. Mondi diversi vengono messi in comunicazione, quello artistico-intellettuale, quello borghese-imprenditoriale e ambiti di lavoro disparati. Dentro le vite di ogni giorno entra, attraverso gli stessi personaggi che si incontrano, l’universo dell’arte, il teatro, la pittura, la musica, così che vita e arte si mescolano, e le emozioni che ne nascono coinvolgono tutti i personaggi e contagiano coloro che guardano.

L’imprenditore Castella, ricco ma non colto, con un ménage familiare annoiato e dolciastro, accompagnato sempre da una guardia del corpo e da un autista che pazienti lo attendono, ha un colpo di fulmine, duraturo, per la protagonista di una recita teatrale cui assiste, che era stata la sua insegnante privata di inglese, da lui sospesa dall’incarico perché tediosa. Riprende quindi le lezioni, ora animato da nuova passione, e farà l’impossibile per conquistarla, frequentando il suo ambiente di teatro, anche quando i vari membri non riescono a trattenere supponenza e disprezzo verso il danaroso ignorante, rivelatosi poi però attento seguace del proprio istinto e capace di scegliere e guardare diretto. Intorno si svolgono le storie degli altri, la guardia del corpo con la cameriera amica dell’attrice, l’autista con una studentessa: tutte variazioni sul tema del pregiudizio, non quello razziale o etnico, evidenti, ma quello subdolo che separa questi ambienti sociali a seconda degli stili e dei modelli; motivi solo di gusto, basati su una percezione diversa riguardo a ciò che si ritiene bello oppure no, a ciò che piace o no, confondendo gusto estetico e gusto sentimentale. Ne seguono un’analisi e un approfondimento dell’animo umano, nelle sue sfaccettature più recondite, nella sua varietà e imprevedibilità.

L’idea che circola nel film, con la sua veridicità semplice e innegabile - "lo snobismo per chi è ‘diverso’ è sempre in agguato" - viene messa in scena con originalità e disinvoltura. Con una perfezione dei dettagli e degli incastri, di situazioni, battute, stati d’animo, con una levità fatta di sottigliezze che riconduce a Woody Allen, con un tono ironico che evita pericoli didascalici e arresta sulla soglia del tragico, si palleggiano una apertura curiosa verso il diverso e la chiusura del rifiuto, in un confronto che sostanzia e amplia l’umanità di tutti i personaggi, seguiti con affetto e calore, quelli che non riescono ad uscire dalle proprie paure e rigidità e quelli che, con un atto quasi di sfida, tentano un’esperienza comunicativa più fiduciosa e profonda.

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