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“Il partigiano Johnny”

Dal libro di Beppe Fenoglio al film odierno. Nel pieno del dibattito - e polemiche - sulla Resistenza.

"Il partigiano Johnny" fu pubblicato nel 1968, cinque anni dopo la morte di Beppe Fenoglio, e fu un avvenimento non solo letterario, ma an- che emotivo e politico che colpì i critici e larga parte dell’opinione pubblica. Dopo "I piccoli maestri" di Luigi Meneghello, quello di Fenoglio era il secondo libro che descriveva la Resistenza in modo nuovo rispetto al codice narrativo usuale, con uno stile anch’esso innovativo, antiretorico, linguisticamente esplosivo. Fu un successo anche tra coloro che avevano partecipato alla Resistenza, e per i quali uscire dal solito cliché fu come respirare un’aria fresca, pulita. Successo singolare, perché Fenoglio aveva fatto davvero la guerra partigiana e, di solito, chi agisce non riesce a narrare poeticamente la sua esperienza. Il supplemento letterario del Times de1 19 dicembre 1969 sintetizzò ogni possibile giudizio positivo scrivendo: "E’ probabile che nessun altro libro sulla Resistenza italiana possa superare, come documento e come riuscita artistica, questo incompiuto, grezzo, straripante, monumentale abbozzo di romanzo".

Ricordo che nell’emozione della prima lettura paragonai Johnny al personaggio di Robert Jordan di "Per chi suona la campana". Diversissimi i due libri, gli stili, l’epoca, le circostanze, ma identica l’asciutta virilità, la ricerca dell’autentico, la fedeltà alle severe, impegnative scelte della vita, il senso della morte (propria e degli altri) dei due protagonisti.

Ora dopo 32 anni esce il film omonimo per la regia di Guido Chiesa. La pellicola è già nelle sale cinematografiche anche in Trentino.

E’ un film di grande intensità, che coinvolge ma anche a tratti delude (quando il suo timbro alto diminuisce di tensione), che stupisce per l’essenzialità di alcune scene e per il coerente schema costruttivo che ripete quello "tebaico" e omerico del libro, ma sconcerta per la confusione di alcuni episodi e per certe inspiegabili lacune. Nel suo complesso l’opera è un grande omaggio alla Resistenza e a Fenoglio, ma vi sono assenze non facilmente giustificabili. Johnny, per esempio, è sempre uguale a se stesso, dal principio alla fine, mentre nel libro vi è una progressiva maturazione, che si evidenzia anche nell’uso dell’inglese (pensato e parlato) che via via scompare nel fluire della storia.

Se emerge con chiarezza l’identità e la differenza tra rossi e azzurri, se con incisività viene fuori la miseria, il fango, la confusione, il freddo, la fame, la spietatezza della guerra sulle Langhe, resta in ombra la natura "arcangelica" (è una definizione di Fenoglio) dell’esercito partigiano e dei singoli personaggi, anche i più scalcinati, rozzi o violenti. Manca a volte la grandezza, biblica e puritana, che c’è nel libro sotto la scorza di fango e di bestemmie, di coloro che si battevano per la libertà.

Va detto però (e non è poco) che spesso una scena, una battuta pregnante (purtroppo non facilmente comprensibile per il cattivo sonoro) fa riemergere l’autentico Fenoglio del partigiano Johnny. In questo il regista Chiesa è riuscito a creare trammenti di altissimo valore, anche estetico, di cui bisogna essergli grati.

Non credo che ai revisionisti questo film possa insegnare qualcosa, proprio per la sua verità. Contribuirà però a confortare coloro che non cedono alla marea dilagante, che vuole legittimare il fascismo anche nei suoi aspetti più abbietti.