Irpinia Day
I vent’anni di vergogna del dopo-terremoto Da La Voce della Campania, mensile di Napoli.
Irpinia Day. Sarà questo il nome delle celebrazioni per il ventesimo anniversario del terremoto che il 23 novembre 1980 colpì a morte la città di Napoli e i paesi di Irpinia e Basilicata e lambì parte della Puglia. Come da tradizione, un "comitato di esperti e personalità" è già al lavoro, delegazioni hanno già varcato i portoni che contano della capitale per concordare la presenza di ministri, presidenti e sottosegretari. La grande kermesse è al via, forse ci sarà anche il Capo dello Stato.
A Ciampi toccherà il clou delle cerimonie e lui, il presidente galantuomo, ascolterà i discorsi, parlerà, si commuoverà. Vent’anni fa, poche ore dopo quella terribile raffica di scosse, un altro presidente, un altro galantuomo, volò in elicottero sul "cratere" devastato. Si chiamava Pertini. Il presidente con la pipa capì subito che lo scempio, le morti, i paesi schiacciati da quel poderoso colpo di maglio, non erano solo il frutto violento del sisma. Capì subito - appena venne infor-mato che la sera del 23 novembre, quando le scosse del 7° grado della scala Richter già seminavano morte e distruzione a Lioni, Sant’Angelo, Caposele, Calabritto, Conza, e il portone della prefettura di Avellino era sbarrato a doppia mandata - che sotto le macerie era stata sepolta anche la credibilità dello Stato.
Uno Stato che in quella parte del Sud era occupato, lottizzato, spartito, dominato dal ferreo sistema di potere della Democrazia Cristiana. La Napoli della gavianea corrente del Golfo e delle truppe pomiciniane, l’Irpinia demitiana, la Basilicata di Colombo.
Pronunciò parole durissime, il presidente partigiano, cacciò funzionari inadempienti e promise giustizia nella ricostruzione.
E fu attaccato. Da Peppino Gargani, all’epoca braccio destro di De Mita, oggi pretoriano di Berlusconi a Bruxelles, e dallo stesso De Mita, che non poteva sopportare critiche alla "sua" Irpinia, neppure dopo che il terremoto ne aveva messo a nudo l’arretratezza, scoprendo la fragilità di quei paesi-presepe antichi e abbandonati, senza piani regolatori e senza piani di fabbricazione che ne preservassero la bellezza e tutelassero la vita di chi li abitava. Forse Pertini comprese in anticipo quello che un altro futuro presidente della Repubblica avrebbe capito dieci anni dopo.
Negli anni passati, abbiamo visto nell’auletta di palazzo S. Macuto, a Roma, Oscar Luigi Scalfaro sbiancare e trasalire ogni volta che eccellenti testimoni della "sua" Commissione parlamentare d’inchiesta sul terremoto di Campania e Basilicata, gli parlavano di "imprevisti geologici" per giustificare la costruzione di strade costate all’erario centinaia di miliardi a chilometro, o di improbabili aziende di barche da diporto collocate nelle aree industriali di montagna.
In quei polverosi fascicoli della Commissione Scalfaro, non c’è tutto quello che il dopo terremoto in Campania e Basilicata, e soprattutto i venti anni di ricostruzione, hanno significato per il Sud e per l’Italia intera, ma ci sono tante cose che nessuno ha voluto vedere. Tutti hanno chiuso gli occhi di fronte a quelle migliaia di pagine e decine e decine di testimonianze, che parlano di una Tangentopoli ben più vasta e grande di quella messa in moto dalle poche lire rubate ai vecchietti del milanese Pio Albergo Trivulzio.
Economia della catastrofe". E’ di Ada Becchi Collidà, studiosa veneziana e parlamentare della Commissione Scalfaro, la felice sintesi di quanto è accaduto in questo ventennio. Tre parole che spiegano il modello di economia, di politica, di costruzione di assetti istituzionali, e finanche di riassetto dei poteri criminali, imposto in questa parte d’Italia dalle leggi di ricostruzione e dalle modalità di distribuzione e di spesa dei 60.000 miliardi stanziati dallo Stato.
Le spinte localistiche favorite dalle clientele politico-elettorali dei vari raisdemocristiani prima e socialisti dopo, il proliferare di commissariati straordinari (c’era quello per l’industrializzazione delle aree interne e quello per la costruzione dei 20.000 alloggi di Napoli e provincia), di commissioni e sottocommissioni ex articolo qualcosa, hanno allargato a dismisura l’area di intervento del terremoto e, soprattutto, la spesa per la ricostruzione.
Se Paolo Cirino Pomicino, nel pieno della sua ascesa di grande manovratore della spesa pubblica, può tranquillamente vantarsi di aver mandato più soldi a Napoli lui che tutti gli altri politici fin dai tempi dei Borboni, è grazie al modello dell’economia della cata-strofe. Che vedeva la "sua" Commissione bilancio come il centro della spartizione della Grande Torta a tutti i partiti, nessuno escluso. Il meccanismo era semplice: bastava un’idea, un progetto, che spesso i grandi consorzi dell’edilizia nazi-nale proponevano al potente di turno, per drenare soldi. E per costruire opere pubbliche inutili.
La teoria di strade, tangenziali e raccordi vari, ma anche e soprattutto le aree industriali edificate in siti che il più sprovveduto studente di economia avrebbe bocciato (20 in Campania e Basilicata, rigorosamente costruite nel rispetto della mappa del sistema di pote-re: c’è l’area di Nusco per De Mita, quella tra Morra e Sant’Angelo per non scontentare Gargani, quelle del Salernitano interno che tanto piacere facevano a Carmelo Conte...), tutto ciò è la fotografia del Grande Spreco. Di una dissipazione di risorse che ha favorito una classe politica che solo grazie al dopo terremoto si è potuta allargare fino a raggiungere i vertici nazionali del potere, mortificato ogni ipotesi di sviluppo delle aree interne (in Irpinia i disoccupati sono drammaticamente aumentati), contribuito all’impoverimento culturale del territorio, e che non è riuscita ad affrontare i problemi di aree da sempre ballerine. Le ricorrenti frane delle zone alte di Napoli, i morti di Sarno e Quindici, raccontano di cose non fatte, di montagne devastate, di paesi abbandonati.
Ma il terremoto e la ricostruzione - una tragedia forse ancora più grande del sisma - raccontano anche un’a!tra storia, quella del potere della camorra, delle sue guerre e delle sue sante alleanze con il potere politico.
Che i clan avrebbero sfruttato l’occasione della ricostruzione, lo capì in anticipo un sociologo italo-americano, Rocco Caporale, che scrisse un violentissimo saggio pochi mesi dopo il 23 novembre. Ma lo studioso della S. John’s University non poteva immaginare quello che realmente sarebbe accaduto in questo ventennio. Una lunga guerra di camorra tra due eserciti criminali, quello di Raffaele Cutolo e quello capeggiato da Carmine Alfieri; una connessione stretta tra camorra, politica e poteri occulti, il "fronte sud" del criminologo brigatista-rosso Senzani, il sequestro di un importante uomo politico, Ciro Cirillo, che diventa l’occasione per la fusione ad altissimo livello di questi poteri politico-criminali.
Al centro, sempre e solo gli appalti miliardari del dopo terremoto. Nel decennio che va dal 1980 al 1990, in Campania sono stati feriti magistrati (il procuratore di Avellino Antonio Gagliardi), uccisi consiglieri comunali di opposizione (Mimmo Beneventano ad Ottaviano), assessori e consiglieri regionali (Amato e Delcogliano), minacciati giornalisti ed eliminati funzionari di polizia come Antonio Ammaturo, che aveva capito tutto, con largo anticipo, sul sequestro Cirillo, lo aveva scritto in un dossier inviato al Viminale e regolarmente scomparso, e che per questo venne ammazzato. In una intervista rilasciata pochi mesi prima di essere ucciso sotto casa, al giornalista che gli chiedeva dei rapporti tra camorra e politica così rispose: "Ci sono gli appalti del dopoterremoto. Il politico ha bisogno di voti e spesso si rivolge al capobastone".
Chi non venne ucciso, fu attaccato duramente. Al giudice Carlo Alemi, che del sequestro Cirillo aveva ricostruito i veri scenari, e che nella sua sentenza di giudice istruttore scrisse di politica, camorra e appalti, venne riservato un trattamento di favore. Ciriaco De Mita, allora Presidente del Consiglio, andò in Senato e lo attaccò, definendolo "un giudice che si è posto al di fuori del circuito costituzionale". Era l’agosto 1988. Otto anni erano passati dal terremoto, e Carlo Alemi venne messo sotto inchiesta dal ministro della Giustizia Giuliano Vassalli. Giudice comunista, era l’accusa. Toga rossa come Libero e Paolo Mancuso, indesiderato come Agostino Cordova.
Ecco, anche questo è stato il terremoto, anche questo sono stati gli anni successivi a quelle tremende scosse che alle 19,30 del 23 novembre di vent’anni fa sconvolsero il Sud dell’Italia. Se ne parlerà nelle celebrazioni dell’ "Irpinia day"? L’eccellentissimo Comitato delle ricorrenze se ne ricorderà? E i giornali della Campania avranno forza e voglia di raccontare quegli anni?
Temiamo di no. Temiamo che tutto finisca in messe accorate e lunghissime celebrazioni-passerella, dove si parlerà del "Sud tradito", dello sviluppo e forse (perché no, tanto è di moda) della new economy e delle sue infinite potenzialità. L’Italia non ama ricordare, ma un Paese senza memoria è un Paese senza futuro. E poi c’è la cam- pagna elettorale...
Accadrà questo. Ma gli uomini che nel ventennio del dopo terremoto sono stati all’opposizione, i sindacalisti che hanno denunciato sprechi e fallimenti, i parlamentari che nella Commissione Scalfaro hanno indagato, gli intellettuali che hanno scritto, che faranno? Taceranno? Parteciperanno ai convegni e alle celebrazioni recitando la parte loro assegnata? Se questo accadrà, allora davvero sarà finita: anche sulla memoria del dopo terremoto si poserà la polvere che da dieci anni copre i fascicoli della Commissione d’inchiesta.