Venezia 2000: la ripresa del cinema italiano
Abbiamo visto sugli schermi due dei quattro film italiani in concorso al Festival di Venezia, “I cento passi” di Marco Tullio Giordana e “La lingua del Santo” di Carlo Mazzacurati, applauditi a piene mani dal severo pubblico giornalistico, ma non riconosciuti dalla giuria come meritavano (solo un premio per la sceneggiatura al primo).
Il nostro cinema ha dimorato a lungo in un limbo di diffusa incapacità a uscire dall’ambito asfittico di un privato minimale per elevarsi al livello di metafora riconoscibile e identificante, e di difficoltà a raccontare sgombro da conformismi ideologici e stereotipi culturali e lessicali, infiacchenti la creatività e persino l’autorevolezza autoriale. Ma pare che ora esso da qualche tempo abbia riaperto gli spazi ed ampliato gli orizzonti, da dove si cimenta con nuovi stili e nuove storie, radicate nella tradizione ma anche estese in una realtà contemporanea complessa e non ancora definita, variegata di etnie e culture, di nuovi modi comunicativi; e soprattutto che sia percorso di nuovo da quella intelligenza umana, propria del nostro cinema dal dopoguerra a tutti gli anni ‘60 e capace di raggiungere in contemporanea cuore e mente dello spettatore, che sente di aver speso bene le due ore di visione.
Ne sono un esempio questi due film, dove una storia di mafia e una commedia all’italiana, così come sembrano all’apparenza, diventano un qualcosa di nuovo e originale. Dall’uno si esce con una forte commozione per l’intensità e la forza di fatti, temi e messa in scena, dall’altro con un senso di sorridente rilassamento. Risultato, questo, che spinge a pensare che il cinema italiano è ancora vitale ed ha cose da dire.