Toti Scialoja Opere 1955-1963
Gli anni della svolta di un grande artista in trenta opere alla Galleria dello Scudo di Verona
Sono diventati ormai imperdibili gli appuntamenti di fine anno con la Galleria dello Scudo di Verona, che continua con estremo rigore a proporci nuovi stimoli di riflessione critica sull’arte italiana del Novecento. Dopo le mostre dedicate ad Afro e a Birolli, ecco arrivato, a quasi due anni dalla scomparsa, il momento di Toti Scialoja e delle sue opere più importanti dal 1955 al 1963, punto nodale per le sorti di tanta pittura italiana. "Ciascuno di questi, mi pare, ci racconti una favola, come se fossimo fanciulli..." - così Platone accennava ai presocratici e ai modi del loro interrogarsi; noi invece utilizziamo le stesse parole per questi pittori all’alba di una nuova modalità di visione e di consapevolezza artistica. Non sarà il "sognar naturale" di Birolli o l’"idea delle cose" di Afro: questa volta per il "coltivatissimo" Scialoja - come lo definì Cesare Brandi- varrà il sentire la pittura in forma di brivido, la rarissima capacità di trasferirlo nella scrittura, quindi nel dono (e non nella giustificazione del suo operare, come qualcuno ha scritto), l’immersione nelle forme della poesia che l’accompagneranno per tutto l’arco della sua vita.
Già nelle opere precedenti il 1955 la sua pittura si era distinta per un carattere di inquietudine, fatta com’era di pennellate nervose o di paesaggi ridotti a nature morte, di figure che andavano man mano scomponendosi in un geometrismo che guardava al cubismo analitico di Braque. Sospinto sull’orlo di un abisso, cerca di orientarsi nell’oscurità seguendo dapprima quelle che sembrano le tracce di animali preistorici o forse quelle "degli dèi fuggiti", come i poeti di Hölderlin che amano sostare su queste tracce "e così rintracciano la direzione della svolta per i loro fratelli mortali". "Parliamo di abisso quando, verificandosi il distacco da una base di appoggio... ne andiamo ricercando uno su cui riporre piede. Pur sprofondandovi non precipitiamo nel vuoto... Cadiamo in un’altezza, la cui altitudine apre una profondità...dimora per l’essenza dell’uomo". Parole di Heidegger che prendiamo in prestito per mettere in risalto il dramma della svolta per un artista: la pittura diventa il luogo dell’io, dell’essere vivente nell’atto di dipingere.
E come tutte le conversioni che si rispettano è accompagnata da un intenso documento poetico (il Giornale di Pittura, un estratto del quale pubblicato nei tipi degli Editori Riuniti nel 1991) che rende in primo luogo merito agli artisi americani - Pollock in testa - e alle loro immagini che "paiono sempre irrisolte, morbosamente invischiate nei loro problemi". Il nostro è pienamente consapevole che "il seme vitale è caduto proprio laggiù, al di là, in quelle opere", ma poi aggiunge: "Da queste bende infette mi pare che stia sbucando Lazzaro carico di vita imprevista." Abbandonando la descrizione come pure il pennello, l’artista adotta lo straccio-batuffolo carico di colore. Lasciare un’impronta significa quindi fissare la presenza nelle dimensioni mutevoli del tempo e dello spazio, impulso esplorativo sempre continuo e meditato, impulso che si muove dall’interno della materia per far affiorare in superficie gli ascessi del colore.
Dipingere diventa per Scialoja "estasi...dell’istante /che si tuffa nel tempo" secondo l’incipit quasi programmatico tratto da uno dei suoi testi poetici più belli, è esplicitazione di una forma di trascendenza-immanenza, è "impastare di più la terra alla luce, la polvere all’umido e al sangue, il granuloso all’impalpabile..."
Dalle Cacce al furore dello stampaggio fino ad una più riflessiva scansione ritmica dei suoi lavori americani e parigini (nella gestualità pura e semplice Scialoja vede i pericoli della retorica e della ripetizione), lo spazio della tela si trasforma allora in scia, grammatica del corpo, di un corpo come matrice della tela stessa.
La mostra rimarrà aperta fino al 13 febbraio 2000 e si avvale di uno splendido catalogo, anche questo imperdibile, con interventi di Fabrizio D’Amico, di Barbara Drudi (Scialoja e il teatro), gli apparati curati da Laura Lorenzoni, per quanto riguarda le lettere bellissime ad Afro, Birolli, e da Giuseppe Appella per la ricchissima biografia, opere, fortuna critica.