L'agnello indigesto
Agnelli e capretti: consumi alimentari ridotti, ma?destino immutato
Quest’anno per molti il rito della Pasqua ai fornelli non si è risolto con il consumo tradizionale di carne d’agnello. Sensibilità nuova o necessità Covid?
“Il mondo è indigesto” diceva Sartre, sempre facile da comprendere, se ci si limita a leggere in superficie, ma molto più complesso se si prova ad analizzarlo, tanto che ci resta sullo stomaco, scatenando la nostra “Nausea”.
Un esempio concreto di cosa volesse dire “mondo indigesto”, ossia di come si faccia fatica a comprenderlo, possiamo riferirlo al recente caso dell’agnello pasquale, dove, dinanzi ad un consumo ridotto dichiarato dalle associazioni di categoria dei produttori, non vi è stata alcuna significativa variazione nel conto complessivo dei capi abbattuti. Come mai e che fine hanno fatto? E cosa possiamo aspettarci per il prossimo anno visto che da ora, stagione luglio-agosto 2020, si dovranno programmare le gravidanze delle pecore per il prossimo anno?
Proviamo a rispondere a queste domande analizzando le possibili variabili che potrebbero comunque venirci utili in futuro.
Molti hanno scritto che il Covid 19 ci sta cambiando, sta cambiando la società, quella occidentale, e i nostri rapporti sociali. Un tradizionale proverbio - “Pasqua con chi vuoi” - ha visto sempre nella festività pasquale una variabile di occasioni, sia nella trasversalità delle relazioni non vincolate alla stretta cerchia familiare, sia nelle brevi uscite fuori porta del giorno successivo alla Pasqua. Eventi quest’anno entrambi non praticabili. La Pasqua è stata celebrata con i pochi intimi residenti in casa, e quindi con un consumo di carne di agnello molto inferiore, anche perché non sempre apprezzato da tutti i membri della famiglia. Insomma, la portata d’agnello a tavola, diciamo la verità, era anche l’occasione di condividere un piatto altrimenti non proponibile tutti i giorni per il suo scarso appeal, se non per i suoi accaniti consumatori.
La stessa giornata successiva, Pasquetta, con tradizionale gita fuori porta, era forse l’occasione per chi non avesse cucinato l’agnello il giorno prima, di consumarlo in trattoria. Insomma tutta un’altra storia quella che quest’anno si è presentata. E i risultati denunciati dalle associazioni di produttori non hanno potuto che confermare quanto descritto.
Quello che resterebbe da chiedersi è se effettivamente questa necessità vincolante vissuta quest’anno potrà influenzare gli anni a venire e se lo “scarto” di consumo potrà realmente rappresentare un’occasione durevole per le sorti di questo animale.
A questa domanda non si può non rispondere se non attraverso alcune riflessioni ad ampio raggio che vorrei lasciare aperte, partendo da semplici domande a cui ognuno dovrebbe essere in grado di fornire le sue personali risposte:
1) cosa ci rappresenta simbolicamente l’agnello a tavola nel giorno di Pasqua? 2) quanto siamo disposti ad accettare il suo sacrificio per celebrale il rito?
In occasione degli auguri per le festività alla Nazione, il nostro Presidente del Consiglio nel riflettere sul significato e il suo valore, confondeva la Pasqua cristiana con Pesach, la pasqua ebraica. Questo, rivolgendosi ad una popolazione quasi esclusivamente di matrice cattolica, sua stessa fede più volte dichiarata. Caduta che si potrebbe derubricare a banale incidente di comunicazione, se non fosse che il suo significato simbolico rappresenta lo stesso riconoscimento identitario per tutti i fedeli cristiani: la resurrezione dalla morte di Cristo. Un errore non teologico, ma fondativo e quindi impossibile da confondere per quanti in essa si riconoscono. Tanto più se poi nel descrivere la Pasqua essa viene agganciata ad un’altra religione, quella ebraica, che nel Pesach, in italiano letteralmente “passaggio”, vede nella fuga dall’Egitto la propria identità. Insomma un doppio errore che evidenzia lo stato di confusione attuale anche a più alte sfere istituzionali.
Questo aneddoto ci apre ad una prima riflessione: oggi la società occidentale si è profondamente secolarizzata e quindi nel suo orizzonte non è incluso il trascendente, con quanto esso implica, in senso di rispetto del rito e della sua simbologia.
Un processo di riadattamento sociale è già in atto da alcuni decenni, dove si resta in superficie, celebrando il rito pasquale e il conseguente sacrificio del simbolo molto probabilmente solo a tavola, con poca o nulla conoscenza del suo valore sacrale e liturgico.
È proprio a partire da questa cesura, tra conoscenza del rito e valore dei simboli, che hanno potuto fare breccia i vari movimenti per la protezione degli animali: cosa rappresenta oggi l’agnello (il simbolo pasquale) quando è venuto meno l’aspetto sacrale del rito?
Di fatto il suo consumo, il sacrificio rituale nella società contemporanea, è la fotografia di un mondo occidentale sempre più caotico e intimamente crollante, dove non resta che aggrapparsi a quanto ci viene sottomano. Dove anche l’occasione più minuta, la festività, o il pretesto più futile - il pranzo in famiglia - sembrano un’occasione per evitare di precipitare nell’abisso del nulla quotidiano.
Non possedere più un calendario alimentare, fatto di vigilie e antivigilie, con precise regole, divieti e digiuni (un tempo, ogni mercoledì e venerdì della settimana) rende l’aspettativa di importanti festività priva di senso. L’astinenza era prevista per quasi un terzo dell’anno fino a 150-160 giorni secondo gli usi e le tradizioni locali, così come l’alternanza fra giorni “di magro” e giorni “grassi”. Inoltre al calendario liturgico se ne sovrapponeva uno naturale: la stagionalità delle produzioni. Il sovrapporsi dei due sistemi (liturgico e naturale) fu la chiave vincente della precettistica cristiana, instaurando nella cultura europea modelli alimentari omogenei, stili e comportamenti sociali condivisi, a prescindere dal censo.
Non è l’agnello ad essere “indigesto”, indigesto è il goffo tentativo contemporaneo di aggrapparsi a qualcosa, per evitare di spalancare le porte al nulla.
Se questo processo di comprensione non viene rispettato “si vomita”.
Indigeste restano le dinamiche tra chi vorrebbe risparmiare una tragica fine all’agnello e chi da quella fine non si vuole separare. Tra chi fa leva sul pietismo ad effetto e sui sensi di colpa, e chi si aggrappa alla sacralità del rito, senza averne più la minima consapevolezza.
Gli appelli etici, le immagini scioccanti restano ai margini o incidono poco, perché dall’altra parte non vi sono alternative all’orizzonte del consumatore.
Ne sono ben consapevoli i produttori di alimenti vegetariani che, per invogliare il consumatore, propongono cotolette vegetali, hamburger di seitan, polpette di miglio e salumi a base di soia, mediando termini e forme dagli identici prodotti a base di carne. Consapevoli che usi e tradizioni non possono essere abbandonati, e che un transito, se transito mai ci sarà, potrà realizzarsi solo traghettando parole, usi e consuetudini della gastronomia tradizionale. In futuro forse si parlerà di hamburger di carne, o di cotolette di pollo, come simboli ancestrali di miti incomprensibili, ma oggi, nel nostro oggi, il percorso risulta ancora lungo e tortuoso. Pieno di contraddizioni, frantumato tra un consumismo plateale e irresponsabile (nelle sagre paesane degli States si realizzano gare tra chi mangia più polpette o wurstel) e blandi tentativi di alternativa, che franano nella memoria e nel gusto collettivo e come tali incidono poco.
In questa via di mezzo contemporanea al consumatore non resta che la nausea, comunque e qualunque scelta compia. Una fotografia triste e che sembra non abbia grossa alternativa in un senso o nell’altro.
Il consumo di proteine animali resta uno spartiacque tra mondi, e mette a nudo uno dei punti problematici dell’economia alimentare moderna. Gli attuali investimenti industriali per realizzare carne da fibre di muscolo animale al momento hanno un costo esorbitante e ancora una volta non tracciano un percorso culturale, ma questo tipo di carne si propone solo come ipotetico succedaneo per placare i sensi di colpa degli stomaci più sensibili. Forse si è esaurita la “rivoluzione alimentare” come processo antropologico: dall’ominide arboricolo vegano e crudista, al carnivoro spazzino, dal crudo al cotto (Lévi-Strauss, 1964), alla cucina intesa come arte e grandi chef.
Non vi sono facili soluzioni all’orizzonte, il tema è complesso e il percorso pieno di contraddizioni: il futuro del cibo è destinato ad un anonimato rituale e a prodotti senz’anima? Forse siamo dinanzi a un nuovo processo, ad una rivoluzione ancora da definire, dove tutto verrà rimescolato in attesa di nuovi valori, nuovi simboli e nuove identità condivise.
Ma per l’agnello il destino appare ancora segnato: il non consumato nel piatto non ha risparmiato la sua infelice sorte. Programmato in tempi precedenti alla pandemia, oggi non trovando sufficienti estimatori alimentari, si ritrova comunque destinato in un percorso a fine termine come anonima proteina animale, declinato nei suoi molteplici usi: da scatolette per pigri cani d’appartamento, a sostanze organiche per i gerani dei nostri davanzali.
In attesa di una nuova palingenesi, nessuno oggi può chiamarsi fuori: a cominciare dai grandi allevamenti dove l’agnello è un banale numero progressivo, alle industrie alimentari in grado solo di veicolare marketing, per finire col consumatore, che dovrà ampliare il proprio orizzonte, non al solo costo del prodotto, ma all’impatto sociale, ai cambiamenti climatici e alle nuove tendenze etiche e culturali. Solo così l’agnello, se sacrificale ancora dovrà essere, avrà riacquistato il suo valore condiviso.