In nome del popolo. Ma quale?
Una repubblica divisa a metà
“Il diritto proviene dal popolo”, gridavano a lettere cubitali i manifesti elettorali del candidato dei Freiheitlichen, Hofer. La Costituzione invece (come ha sottolineato l’editorialista dello “Standard”) recita: “L’Austria è una repubblica democratica, il cui diritto proviene dal popolo”. La differenza è abissale, e non è un gioco di parole. La Costituzione dice che viviamo in una repubblica democratica, parlamentare (e non presidenziale), legittimata sì dal voto popolare, ma con diritti fondamentali, garanzie (anche per le minoranze) e un equilibrio dei poteri, con una Corte Costituzionale, che può anche annullare leggi votate dalla maggioranza parlamentare se giudicate incostituzionali. Una repubblica che, in quanto Stato costituzionale, non ha niente a che vedere con la “dittatura della maggioranza” di cui parlava (male) Alexis de Tocqueville nel suo “Sulla democrazia in America”, né con la “democrazia diretta” referendaria del populismo di destra, o con la democrazia come la descrive Lenin nel suo “Stato e Rivoluzione”.
Anche su questo aspetto (fondamentale) abbiamo votato il 22 maggio. C’era da scegliere fra “il vecchio sistema di potere della cogestione rosso-nera, che non riesce più a combinare niente, se non guai, con un presidente verde come il prezzemolo su una zuppa poco digeribile” (parole di Strache, leader della destra), e le riforme proposte da un presidente “forte” e “popolare”, cioè del popolo “vero” caro ai populisti di ogni estrazione, che esclude tutti gli altri, dai migranti non integrati, fino a tutti quelli che non fanno parte del presunto “noi”: bianchi uomini europei cristiani e preferibilmente eterosessuali. Gli altri non contano.
L’autoritarismo di destra o la società aperta. Su questo dovevamo votare, anche se molti (troppi) hanno solo pensato al “basta, di questo governo rosso-nero non ne possiamo più, vogliamo dare un segnale di cambiamento, e non importa in quale direzione”.
Il piccolo margine che infine ha deciso il ballottaggio si basava sulla minoranza di elettori dei partiti tradizionali (e anche indipendenti) che avevano capito che si votava o per la società aperta (ed europea) o per l’Orbanizzazione voluta da Strache e dal suo candidato presidenziale.
Abbiamo vinto con un margine di 31.000 voti, lo 0,4% su oltre sei milioni di aventi diritto e più di 4,5 milioni di votanti; almeno al momento di scrivere, quando il risultato è ancora provvisorio (quello ufficiale è atteso per il 2 giugno, dopo la chiusura di QT). Si parla infatti di presunte piccole irregolarità (soprattutto nel settore dei voti per corrispondenza), che però, come ha chiarito il ministro dell’Interno, non sarebbero comunque in grado di dare la vittoria a Hofer. I Freiheitlichen, naturalmente, anche se non contestano il risultato, rivolgendosi alle Corte Costituzionale continuano a sussurare di truffa del governo ladro e del sistema di potere.
Quella metà del popolo che ha votato van der Bellen è un’ampia alleanza di democratici onesti oppure dei liberali di tutti i colori, Ci sono i conservatori che per la prima volta nella loro vita hanno votato per un verde (ovviamente come male minore o come garante della repubblica parlamentare nella quale vogliono vivere anche in futuro), ci sono i cristiano sociali che votano per chiunque purché non sia della destra estrema, ci sono i socialdemocratici “di cuore” che odiano i Freiheitlichen, c’è una sinistra generalmente critica verso i verdi, perché troppo integrati e non abbastanza di sinistra, ci sono gli indipendenti con il loro voto strategico a seconda della posta in giuoco, e perfino quelli che di regola non votano più perché “il voto non cambia niente” (o perché sono contenti dello stato di cose e se ne fregano di chi governa), ma che stavolta hanno visto che si rischiava grosso, come dimostra l’alta affluenza alle urne.
Insomma, è un’alleanza ampia, diversificata e fragile. Van der Bellen lo ha capito: niente trionfalismi, ha detto nel suo primo incontro con la stampa internazionale, ora bisogna riunificare i cittadini, capire le ragioni di chi ha votato “contro il governo” anziché per un presidente, e discutere sulle riforme di cui l’Austria ha bisogno.
Sarà un cammino difficile. Ma siccome il partito socialdemocratico pochi giorni prima delle elezioni ha cambiato il cancelliere e alcuni ministri (licenziando l’insopportabile Faymann), c’è da sperare che anche lo stile del governo si adeguerà alle aspettative. Ricuperare fiducia, genericamente nel futuro, e specialmente nei partiti democratici senza i quali la democrazia parlamentare non può funzionare: questo il compito davanti a noi tutti. Per questa volta, ce l’abbiamo fatta. Fino alle elezioni politiche del 2018.