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Guerra al terrore e terrore della guerra

Dopo Bruxelles

Difficile, all’indomani di fatti tanto gravi e sconvolgenti come gli attentati recenti in Europa, scrivere qualcosa tenendosi a distanza dall’emotività e dalla relativa retorica. Cercherò tuttavia di vedere questi attentati da un punto di vista di diverso, diremmo da un’ottica più storico-ideologica da un lato e politico-militare dall’altro.

Papa Francesco ci ha parlato di una terza guerra mondiale a pezzi in atto da tempo. Sante parole, parole profetiche. Ma niente a che vedere con le passate guerre mondiali. Si combatte in tutto il mondo, ma in modo, direbbero gli esperti di strategia militare, del tutto asimmetrico. Eserciti regolari contro bande e gruppi di terroristi, talora organizzati in unità di combattimento con armamenti e tecnologie di tutto rispetto. Nulla di nuovo, si potrebbe obiettare: le guerre partigiane sono state tutte delle guerre asimmetriche, da quella dei partigiani italiani o francesi contro la Wehrmacht nella seconda guerra mondiale a quella dei vietcong contro l’esercito americano nel Vietnam degli anni ‘60-70, fino a quella dei mujaheddin afghani contro l’Armata Rossa negli anni ‘90.

Questo è vero però solo in parte. Intanto i vari gruppi e movimenti partigiani su nominati difendevano una patria dall’invasore o dal colonialista di turno; l’ISIS non difende una patria, anche se oggigiorno controlla una fetta di Siria e una d’Iraq e si sta espandendo in Libia. L’ISIS non ha una patria anche perché, se l’avesse, sarebbe amato dagli abitanti dei luoghi che esso controlla, i quali invece, com’è noto, vivono nel terrore. Ma l’ISIS non ha patria perché semplicemente l’Islam fondamentalista non riconosce patrie nel senso nazionale a noi familiare, ma solo una umma, una comunità religiosa. E - questo è il punto - l’ISIS, che è l’espressione più radicale di questo fondamentalismo, non riconosce neppure a tutti i musulmani lo status di membri di tale umma. Per esempio ne esclude gli sciiti, in quanto eretici, ne esclude altri movimenti di matrice islamica come gli Yazidi o gli Alawiti, perché ritenuti o eretici o neppure degni di essere chiamati “islamici”. Ma l’ISIS, movimento dichiaratamente sunnita, arriva a scomunicare perfino quei sunniti di tribù o villaggi che appoggiano i regimi al potere in Iraq o Siria; arriva a dichiarare passibili di morte anche quei sunniti che appoggiano regimi come quello di al-Sissi in Egitto (paese sunnita) schierati contro i vari al-Qaeda, ISIS e movimenti affini.

In questa violenza, che si è scatenata soprattutto contro altri musulmani, si può vedere una reviviscenza dell’antico partito Kharijita, un movimento rigorista né sciita né sunnita che nei primi secoli dell’Islam facilmente scomunicava i musulmani ritenuti peccatori e ne legittimava il massacro. Chi peccava gravemente era ritenuto non più degno della qualifica di musulmano, poteva essere dichiarato addirittura apostata e come tale bandito o ucciso. I Kharijiti furono duramente combattuti dal resto dei musulmani che obiettavano saggiamente che solo Dio può giudicare il peccatore, e lo farà certamente, ma soltanto nel giorno del giudizio universale.

I Kharijiti, perseguitati senza tregua dai califfi omayyadi e abbasidi, furono messi in condizione di non nuocere; ma periodicamente movimenti e gruppi ispirati al loro rigorismo senza compromessi sono sorti qua e là in terre musulmane, come una metastasi che stenta ad essere definitivamente sradicata. In tempi recenti questo “neo-kharijismo” si è visto all’opera in Algeria nei gruppi radicali del GIA che a lungo hanno terrorizzato il paese del Maghreb in nome di una jihad contro gli “apostati”, compiendo spesso massacri di interi villaggi.

I fondamentalisti dell’ISIS, sono caratterizzati dallo stesso rigorismo, pretendono di punire il peccatore che viola a loro dire la shari’a e di anticipare già in questa terra il giudizio che Dio emetterà solo alla fine dei tempi. Nel contempo si sentono autorizzati a lanciare la jihad contro i regimi degli stati musulmani da essi ritenuti apostati, altro obbrobrio giuridico dal punto di vista della giurisprudenza islamica classica, che prescrive la jihad solo contro gli stranieri (“infedeli”) invasori di terre musulmane.

Non a torto molti intellettuali musulmani oggi dichiarano che questi movimenti sono la negazione del verbo predicato dal profeta Maometto, sono i peggiori nemici dell’Islam e fanno notare che le vittime più numerose della loro barbarie sono altri musulmani: sciiti e sunniti.

Non tutti i morti hanno lo stesso peso

Detto questo, bisognerebbe anche tentare di comprendere la logica militare che sta dietro il terrore. L’ISIS lo ha applicato sistematicamente nei territori occupati per scoraggiare qualsiasi rivolta e stroncare ogni resistenza nella popolazione, con la stessa logica con cui le truppe d’occupazione tedesche durante la guerra eseguivano rastrellamenti e fucilazioni di massa ad ogni minimo accenno di rivolta. L’ISIS ha usato il terrore nel rito macabro delle decapitazioni, soprattutto per terrorizzare i soldati di Assad, quelli irakeni e ogni militare della coalizione occidentale. Un pilota che parta con il suo aereo per bombardare i territori dell’ISIS sa che, se cade vivo, potrebbe finire bruciato come accadde a suo tempo al povero pilota giordano. La ratio militare di questo tipo di terrore è evidente: demoralizzare i nemici e scoraggiare ogni rivolta interna.

Ma qual è la ratio militare, ci si chiederà, degli attacchi terroristici in Europa? Per rispondere bisogna osservare che questi attacchi hanno avuto un evidente crescendo da un anno a questa parte, di pari passo con le sconfitte che l’ISIS va accumulando sul campo in Siria e in Irak. In qualche modo l’attenzione dei media viene così spostata: un attentato con 100 vittime in Francia o in Belgio fa più notizia delle centinaia di persone, soprattutto civili, che muoiono in Siria e Irak ogni giorno, a qualsiasi ora, ma soprattutto distoglie l’attenzione dai continui arretramenti sul terreno che l’ISIS ha patito nell’ultimo anno. A livello propagandistico - soprattutto nell’ottica del reclutamento - un attentato a Bruxelles rende più di un villaggio conquistato in Siria o in Libia, di cui peraltro la stampa occidentale a fatica si accorge. E qui occorre dire che, involontariamente, i media nostrani fanno il gioco dell’ISIS.

Ma c’è un’altra ragione che rende pagante il terrore, certamente legata a una strategia di lungo termine dell’ISIS e delle potenze regionali (neanche tanto occulte) che lo sorreggono. L’Europa non vede più soltanto la guerra in TV, ma ora la vede a casa propria per le strade di Parigi ieri, oggi per quelle di Bruxelles, domani chissà dove. Ormai nessuno si chiede più se mai scoppierà un’altra bomba, ma solo dove. Il punto debole dell’Europa è l’opinione pubblica, che prima o poi si chiederà se non sia il caso di ritirare truppe e aerei dal Medio Oriente e lasciare che l’ISIS e i vari dittatori dell’area si sbranino tra di loro. L’Italia, che era quasi decisa a intervenire in Libia, dopo Bruxelles ha fatto non a caso precipitosamente marcia indietro…

Del resto l’Europa ha avuto a Parigi e a Bruxelles un assaggio dell’inferno che in Medio Oriente milioni di persone assaporano ogni giorno: le foto e i filmati delle spettrali città siriane con pochi spauriti civili che vagano tra i palazzi bucherellati e ridotti in macerie sono impressionanti. Saremmo noi disposti a sopportare anche un decimo di tanta distruzione per andare a portare “pace e democrazia” in Medio Oriente? L’ ISIS con il terrore mira dunque a fiaccare il fronte interno, il ventre molle dell’Europa, nella convinzione che la sua opinione pubblica, che di guerre ne ricorda abbastanza fino a quella recente dei Balcani e dell’Ucraina, non accetterebbe di infilarsi nel tunnel di una guerra asimmetrica. In cui magari, alla fine, l’ISIS sarà anche spazzato via dalla Siria e dall’Irak, e pure dalla Libia, ma potremmo ritrovarcelo in casa, rimpatriato nei ghetti urbani, pronto magari a fare un attentato alla settimana.

Ancora, i movimenti di sfollati e profughi che hanno invaso l’Europa nell’ultimo anno hanno chiaramente mostrato agli strateghi dell’ ISIS il potenziale di destabilizzazione politico-sociale che questo può avere sugli stati del vecchio continente: crescono i partiti xenofobi, aumentano gli attriti e il malanimo verso gli immigrati anche di lunga data, si acuisce il disagio nelle banlieues vecchie e nuove, si radicalizzano soprattutto i giovani euro-musulmani cresciuti in questo clima, e l’ISIS può fare comodamente proseliti e nuove reclute. Soprattutto può pensare in questa fase a creare in ogni paese, a partire dalle periferie e dai ghetti urbani delle grandi città europee, unità di combattimento con buone capacità tecnologiche (gestione delle informazioni, preparazione di esplosivi) pronte a scatenare il terrore: è quello che si è capito seguendo la vicenda di Salah Abdeslam e di altre primule rosse della galassia jihadista.

Infine l’ISIS, portando la guerra del terrore in Europa, si mostra alle masse musulmane nelle vesti di eroico paladino che vendica l’onta di truppe cristiane che occupano il Dar al-Islam, come abbiamo detto più sopra uno dei casi classici previsti dalla giurisprudenza islamica in cui la jihad è ammessa e persino prescritta. E, ammantandosi della retorica del Davide che lotta con ogni mezzo contro il Golia dell’Occidente, la propaganda dell’ISIS ha buone chances di prosperare a lungo in Europa e in Medio Oriente. ?

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