Porfido: sull’orlo del baratro
Anni e anni di una gestione delle cave degne del Far West e la crisi sta affondando il settore. Il bisogno di regole finalmente rispettate e di un ruolo attivo della Provincia.
Sono trascorsi quasi tre anni (vedi QT del febbraio 2012) da quando ci siamo occupati delle cave di porfido in Valle di Cembra e di una crisi che stava solo iniziando a manifestare i suoi primi effetti, oggi ben evidenti in tutta la loro gravità.
Stiamo parlando di un settore che, secondo dati diffusi dalla Fillea-CGIL in un recente convegno ad Albiano, ha visto scendere il numero di addetti dai 1500 del 1990 ai circa 500 attuali, la maggior parte dei quali lavora, tra l’altro, in modo discontinuo e precario.
Nello stesso periodo si è registrato anche un calo del 39% della quantità prodotta e del 35% per quanto riguarda il valore della produzione; per completare il quadro, il 2015 si dovrebbe chiudere, salvo improbabili sorprese, con una ulteriore contrazione del 15% sul fatturato.
Da sole queste cifre sono sufficienti a cancellare anche il ricordo di un settore che non ha mai avuto bisogno di particolari strategie di marketing per vendere i propri prodotti, tanto da crogiolarsi per anni in un immobilismo miope.
L’idea che la crisi potesse solo lambire la Valle di Cembra, fatta propria anche da molti lavoratori, magari nella speranza che avrebbe comunque riguardato prevalentemente la manodopera immigrata o, nella peggiore delle ipotesi, qualche azienda già barcollante, ha lasciato il posto ad un misto di incredulità e di fatalismo.
Sembra ormai chiaro che quello delle cave non è più, se mai lo è stato, un mondo a parte separato dal resto dell’economia globale.
Non si può però comprendere fino in fondo la situazione attuale senza ricordare che per decenni si è parlato di questo settore come di un Far West dove l’assenza di regole e l’arroganza di gran parte dell’imprenditoria locale ha determinato una crescita senza alcun principio guida se non l’arricchimento dei concessionari.
La lobby del porfido
I tentativi di regolamentare la situazione, prima con la L.P. n° 6 del 1980 e in seguito con la L.P. n° 7 del 2006, attualmente in vigore, hanno avuto scarsi effetti, poiché la gestione delle cave è stata affidata alle amministrazioni comunali governate, salvo rarissime eccezioni, da imprenditori del settore.
La lobby del porfido è sempre stata molto forte anche nel governo provinciale, basti ricordare in proposito il cav. Sergio Casagranda, imprenditore del porfido e assessore negli anni ‘80, Tiziano Odorizzi ex consigliere, anche lui imprenditore del porfido (oggi alle prese con un fallimento milionario) e infine Marco Benedetti, ex assessore provinciale all’Industria, fortemente legato ad una parte dell’imprenditoria nel comune di Fornace.
Parlare di conflitto di interessi, in questa situazione, sembra più di un eufemismo, ma fa comunque piacere apprendere dalla stampa locale che anche l’assessore Olivi ha finalmente scoperto quella che, da sempre, comitati di lavoratori e cittadini della valle, denunciano come una grave anomalia.
La presa di coscienza del vicepresidente della Giunta provinciale non sembra tuttavia né sufficiente (né tantomeno tempestiva) per risollevare le sorti del comparto che, oggi più che mai, sembra essere alla deriva.
Poco senso sembrano avere i generici appelli al rispetto delle regole, così come gli annunci di riforme normative o di una nuova governance per gestire il settore.
A fronte di ripetute e diffuse violazioni, anche la recente revoca della concessione ad una azienda di Lases (la Diamant porfido) non in regola con il pagamento delle retribuzioni e dei canoni, sebbene rappresenti un caso inedito, sembra più un’eccezione che il segno concreto di un’inversione di tendenza.
Indicativo in proposito che il “Coordinamento lavoro porfido” (un comitato di lavoratori e abitanti della zona del porfido) abbia recentemente presentato un esposto presso la Procura della Repubblica di Trento per omissione di atti d’ufficio nei confronti di sindaci, commissari ed assessori all’Industria dei comuni del porfido.
In questo quadro anche la nuova authority annunciata pomposamente da Olivi rischia di diventare l’ennesimo carrozzone, come lo è stato il “Consorzio della pietra trentina”, che avrebbe dovuto portare ad un salto di qualità e si è trasformato, invece, in un soggetto inutile e pletorico, come lo stesso Olivi l’ha definito recentemente. Le fragilità strutturali del settore sembrano essere i veri ingredienti della crisi attuale, solamente aggravata dal contesto generale.
Un settore frammentato
In modo particolare la grande frammentazione delle aziende, che fino a una decina d’anni fa ha garantito amplissimi margini, si è rivelata, di fronte alle prime difficoltà di mercato, un ostacolo insormontabile.
Il fatto di avere tante piccole aziende che scavano parti dello stesso giacimento, ognuna con tempi, ritmi e modalità diverse, si traduce in una gestione complessiva poco razionale e con costi crescenti. Significa soprattutto avere una grande difficoltà nel penetrare i mercati, acuita spesso da una limitata capacità di interpretarne le richieste in termini di prodotti e da una concorrenza non proprio corretta, basata sull’esternalizzazione, sul lavoro nero e l’abbassamento della qualità.
L’inveterata abitudine di molti imprenditori di gestire le proprie attività sostanzialmente senza controlli e trasparenza, spesso con sovvenzioni e contributi erogati a pioggia e senza vincoli precisi (vedi per esempio i patti territoriali), ha prodotto l’evidente quanto inutile rinnovamento del parco macchine, il proliferare di capannoni e zone artigianali (oggi parzialmente dismessi), ma pochissima reale innovazione.
Sono state molto poche le aziende che, invece di impiegare gli utili in speculazioni immobiliari, ville e terreni, hanno saputo investire e rinnovarsi, e che negli ultimi anni non solo non hanno sofferto, ma hanno visto crescere fatturato e margini puntando su qualità, diversificazione e innovazione tecnologica (si veda L’Adige del 30 settembre).
Nelle cave si lavora ancora a cottimo e la qualità del prodotto rimane, in molti casi, poco più che un’ambizione.
Da anni si parla di macro lotti, gestione più razionale delle attività estrattive, unificazione, ma non si è fatto un solo passo per mettere in pratica questi obiettivi anche attraverso dei vincoli stringenti per le aziende.
Paradossalmente quell’aggregazione che, se gestita correttamente, avrebbe dato una marcia in più all’intero settore, si sta lentamente attuando attraverso un processo di concentrazione che vedrà poche grosse aziende leader dominare l’intero mercato.
Si tratta di qualcosa che ha poco di naturale e che non deve rallegrare, poiché riproduce, aggravandole, quelle dinamiche che hanno determinato la situazione attuale.
Ci riferiamo, in particolare, al massiccio ricorso all’esternalizzazione di buona parte della filiera produttiva, prima a pseudo-artigiani solo formalmente autonomi, ed oggi direttamente alle aziende in difficoltà, ma a condizioni non negoziabili e a prezzi super ribassati; un ulteriore passo, in definitiva, verso la frammentazione.
Di fronte al baratro nel quale sta precipitando il settore sarebbe necessario imporre quella razionalizzazione rispetto alla quale l’imprenditoria del porfido ha sempre tergiversato.
Si parla infatti di una risorsa che è, a tutti gli effetti, un bene collettivo (la proprietà delle cave è nella maggior parte dei casi di proprietà di comuni e Asuc) e che come tale andrebbe quindi gestito e utilizzato.
Un punto di partenza dovrebbe forse essere la presa d’atto che le gestioni in capo a comuni, commissari o altri soggetti (come per esempio so.ge.ca, società gestione cave) hanno dimostrato scarsa autonomia e incapacità di governo.
Il ruolo della Provincia
Probabilmente la possibilità che questo settore possa avere ancora un futuro si gioca sulla possibilità che la Provincia sia quel soggetto terzo e super partes che fino ad oggi non ha saputo (o voluto) essere.
Ciò non significa che questo barcollante pezzo dell’economia trentina debba cadere addosso alla collettività, come è successo fin troppe volte in altri ambiti, mettendo magari a carico di tutti i costi per i ripristini ambientali che a breve saranno necessari.
Più che una provincializzazione delle cave, come auspicato dalla CGIL, sarebbe oggi più che mai importante che la Provincia assumesse un ruolo più incisivo a livello di garanzia, controllo ed indirizzo.
Potrebbe essere un primo passo verso una gestione fatta anche nell’interesse delle comunità locali piuttosto che spudoratamente privata, come avvenuto fino ad ora, con il controllato che era anche controllore di se stesso. Forse l’unica cosa che non serve oggi è quella rivoluzione annunciata più volte che alla fine, se applicata con lo stesso modus operandi di sempre, avrebbe l’effetto di cambiare tutto per non cambiare niente.
Il rigore nel rispetto delle regole sottoscritte dovrebbe essere il primo presupposto e, in questo caso, sarebbe già un fatto inedito e una piccola (ma anche grande) rivoluzione.