Francesco Dainese
Un flauto un po’ opaco
Composto nel 1934 e dedicato al rinomato rappresentante della scuola flautistica francese del Novecento Marcel Moyse, il Concerto per flauto e orchestra di Jacques Ibert è una delle opere più rinomate per questo strumento, probabilmente per quella perfetta commistione tra virtuosismo strumentale e leggerezza espressiva che lo rende così magnetico all’ascolto, in bilico tra un impianto strutturale e armonico ancora legato alla tradizione e le sperimentazioni avanguardistiche del primo Novecento. Il cartellone della serata incastona questo, che è uno dei capisaldi della letteratura flautistica, tra due pilastri della classicità, la Sinfonia n. 104 di Haydn, l’ultima delle sinfonie londinesi, e la Sinfonia n. 40 “Jupiter” di Mozart.
Solista al flauto, per quello che è il cuore del programma, Francesco Dainese, da più di vent’anni eccellente primo flauto dell’Orchestra Haydn, che conosciamo per un suono adamantino, equilibrato, perfettamente calibrato al colore dell’orchestra, mai tentato dal protagonismo nemmeno nei momenti più importanti e prestigiosi di “soli” orchestrali. Non nascondiamo però che ci saremmo aspettati un flautista diverso in questo caso, meno orchestrale e più solista, soprattutto con un repertorio come questo. Certo, la tecnica di Dainese è impeccabile, il suono è sempre perfettamente a fuoco e delineato, e il secondo tempo, che spicca per cantabilità e atmosfera, ne mette in luce l’eleganza; in generale abbiamo però trovato l’esecuzione piuttosto monotona e inespressiva, dal carattere forse troppo tranquillo, in contrasto con una scrittura ricca anche di colori aspri, però non evidenziati, e di una tensione e direzione che ci è sembrata mancare, nel flautista come nell’orchestra. In particolare nel terzo tempo, che è certamente quello musicalmente più interessante, ricco com’è di spunti melodici e colori orchestrali di derivazione jazzistica, Dainese è stato un solista forse troppo controllato e composto, nel suono come anche nella presenza comunicativa, e in questa serietà ed equilibrio quasi si è persa la gioiosa leggerezza di quel virtuosistico fluire della scrittura di Ibert.