Conformismo
“Uomo onesto, franco e generoso”. “Uomo coerente e preparato”. E poi un crescendo: “Un grande uomo del territorio”, l’immancabile “Un padre dell’Autonomia”, fino a “Un Mosè della politica”. Questi, sulla stampa, i titoli dei tanti pezzi stracolmi di elogi sperticati in occasione della morte dell’ex-presidente Flavio Mengoni.
“De mortuis nihil nisi bonum” - dicevano, cinici e cortesi, i romani: di un morto si parli solo bene. D’accordo, però quando si parla di una figura pubblica, di un pezzo della nostra storia, si dovrebbero comunque evitare, per di più in pubblico, i giudizi squilibrati, gli encomi iperbolici. Perché fare altrimenti significa rinunciare al giudizio, alla verità storica; per appiattirsi su una sconcertante smemoratezza, un conformismo che tutti livella verso un’indistinta positività. Eran tutti dei grandi i nostri padri, degli autentici giganti. Figuriamoci. È la casta che celebra se stessa; e la stampa si fa premurosa ancella.
Noi di Flavio Mengoni abbiamo, nitido, un ricordo diverso. Chiariamo subito: siamo parte in causa. QT con Mengoni ingaggiò un conflitto totale: i nostri articoli contribuirono a screditarlo, a segnarne la fine politica; lo portarono in tribunale a fronteggiare l’infamante accusa di peculato; assolto, fu lui a querelarci per diffamazione. Una battaglia molto aspra, che coinvolse anche altre istituzioni, l’Avvocatura dello Stato, il Procuratore della Repubblica, e da cui uscimmo molto bene, sia sul piano giudiziario che su quello della credibilità.
Per questo, per di più dopo tanti anni, non ci rimase alcun rancore verso Mengoni; restò invece e resta il giudizio negativo sulla opacità di una serie di operazioni. E resta lo sconcerto nel vedere una stampa allora subalterna, oggi smemorata. La trasparenza, l’integrità al di sopra di ogni sospetto sono doti in realtà richieste solo a parole.
Ma il giudizio su Mengoni non si può limitare alla pur primaria questione morale. L’uomo, colto, intelligente, nei primi tempi (1979) della sua presidenza, seppe affascinare, proporre soluzioni di grande respiro. Ma riuscì a concretizzare poco: l’Agenzia del Lavoro, il Progettone. Punto e basta. Sui comprensori si battè per l’elezione diretta, soluzione che forse avrebbe potuto dare un senso all’inutile ente intermedio; ma fu sconfitto. Sulla riforma dell’amministrazione non riuscì a combinare alcunché. Non era uomo da politica spicciola: autoritario, si fece ombroso; affabile e brillante nella vita privata, divenne cupo, diffidente, ringhioso nei rapporti con gli altri attori politici, a iniziare dai peraltro ambigui compagni di partito; attaccato con la denuncia e con la satira da QT, si barricò nel fortino della Presidenza; tutte condizioni che lo condannarono ad una sostanziale inazione ed agonia.
Così, quando nel luglio 1985 crollarono i bacini di Stava da nessuno controllati, portandosi via, assieme a 268 persone, la credibilità della struttura provinciale, con totale assenza di lucidità reagì nel peggiore dei modi, con ringhiose assoluzioni di una colpevole burocrazia evidentemente da rifondare, e con cui invece si identificava. E fu la sua fine: su input dei socialisti, i DC furono ben lieti di sostituirlo con Angeli prima e Malossini poi, in due legislature segnate dal fecondo protagonismo del vice-presidente socialista Walter Micheli, che con ben altra indole, visione, carisma, pragmatismo, riuscì a ridare entusiasmo e credibilità alla struttura provinciale.
Questa la parabola di Flavio Mengoni. Anche se la stampa scrive che “ha lasciato un segno che rileggeremo ancora tante volte nella filigrana di un Trentino che, senza uomini come lui, non sarebbe questo”.