Crolli
Dentro di me sono ingombra di macerie. Il primo inaspettato crollo emotivo era stato con il terremoto del Friuli del ‘76. Avevo partorito Matteo da quaranta giorni. Ero già scossa dal parto violento e precipitoso, provocato dall’olio di ricino che l’ostetrica mi aveva fatto prendere, passato il termine da dieci giorni. Piena di amore e buone intenzioni, tornata a casa con il bambino, cercavo di interpretare al meglio il ruolo di mamma, ma ero così giovane da aver bisogno della mamma fissa io. Di assistenza continua, collaborazione, buoni consigli, aiuto psicologico... Ma nulla di tutto questo avvenne, la depressione post partum non era ancora riconosciuta e curata. Il mio sposo bambino, più traumatizzato di me, prendeva le distanze da quelle responsabilità capitate senza averle scelte e progettava evasioni extracorporee.
Non avevo ancora avuto il capoparto e non mi potevo immergere nella vasca, ma solo lavare a settori quel corpo che non era più il mio. Ero nuda davanti al lavandino e tremavo già di mio per la debolezza - sì, mangiavo poco per rimettere in fretta i miei vecchi jeans - quando ci fu la scossa. Abitavo al quarto piano di un condominio, saltò subito la luce e il terrore penetrò in ogni capillare fino al cuore svegliando paure ataviche che avevo dentro. Con fatica immane riuscii poi a crescere Matteo, che era un bambino buonissimo e sicuramente più equilibrato dei suoi genitori. Ma il mio chiodo fisso era la paura di un’altra scossa, e ce ne furono molte e le sentivo persino arrivare, ipersensibile com’ero diventata: felina e rondine insieme. Tornare al lavoro sette mesi dopo mi permise di rientrare in me, anche se a scadenza; come un’anfora preziosa ormai mi ero rotta e sentivo altri crolli aspettarmi in panchina. Come quando ti sloghi una caviglia e ti rimarrà sempre più debole, facile a ricadere.
Seguirono poi tanti piccoli crolli di nervi dovuti al super lavoro che mi ero sobbarcata e si ripeteva quotidianamente, con il mio sposo rimasto bambino che invece si risparmiava il più possibile. Dentro ero come una matrigna cattiva, non mi concedevo riposo, comodità, agio e coltivavo piantagioni d’inadeguatezze e sensi di colpa. Fu perciò un crollo annunciato da migliaia di micro scosse quello che mise fine al matrimonio e il mio sposo bambino cadde dal seggiolone, lasciandomi unica erede di quel fallimento, di eterni dilemmi e rimorsi da portare a spasso nella casa ormai vuota.
Il crollo più distruttivo fu nel 2007, quando la somma di nuove patologie - primaria e derivate - mi stese quattro mesi in ospedale, fino a quando le cure mi stabilizzarono. L’odiata, tanto temuta carrozzina era parcheggiata a fianco del letto, pronta per l’uso. Crollarono insieme rapporti sociali, familiari, di amicizia, amorosi, autonomie personali. Ci sono ancora amicizie scaraventate talmente lontano dal disastro da non essere più state ritrovate, prima molto essenziali e poi, triste ma vero, dissoltesi nell’aria. Le ricerche sono state sospese per mancanza di convinzioni: è giusto chiedere perdono perché ero chimicamente fuori di senno? Ho preso atto in quell’occasione che per essere stimati andava bene qualsiasi tipo di malattia, anche un’agonia. Ma non la follia e lo stigma che ne consegue, che spaventa e allontana avvolgendoti nella solitudine. Dentro di me ci sono molte sedie vuote e un piccolo camposanto, dove coltivar splendide paturnie per le vittime di quello tsunami chimico che mi fece terra bruciata intorno.
Sicuramente viviamo un’epoca contrassegnata da crolli apocalittici: dalla caduta del Muro di Berlino all’abbattimento delle Torri Gemelle. Macerie del Muro diventate poi gadget per turisti, mentre quelle delle torri sono state presto ricoperte come una vergogna. Terremoti devastanti, crolli di borsa, valori morali e religiosi, d’imperi, politici, monetari... Rischio seriamente un altro crollo di nervi senza ritorno. I miei comunicati ANSiA m’impongono allora di aprire Facebook, un “non luogo” dove la realtà virtuale è indenne da crolli, salvo che non siano di popolarità.