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QT n. 8, 23 aprile 2005 Scheda

Le madri parlano

Antonio Graziano

L’associazione "Madri e Familiari dei Desaparecidos Uruguaiani" è nata dopo la fine della dittatura con lo scopo di fare luce sui fatti accaduti nello stato latino-americano tra il 1973 ed il 1984. Dell’associazione fanno parte le madri, le mogli, i figli di cittadini uruguaiani sequestrati in quanto politicamente attivi o sospettati di azioni sovversive nei confronti dello Stato. Oltre alla conoscenza dei documenti ufficiali, è stato interessante ascoltare le parole degli stessi familiari che hanno scelto, ancora una volta, di raccontare cosa è accaduto negli ultimi trent’anni.

La signora Amalia Gonzales ha perso il figlio Luis Edoardo Gonzales nel 1974. Racconta che per anni è stata all’oscuro dei fatti, pensando che suo figlio fosse in prigione. Col ritorno della democrazia, il gruppo di familiari in Uruguay ha lavorato a stretto contatto con quello in Argentina, in quanto la maggior parte dei desaparecidos cittadini uruguaiani sono scomparsi nell’altro paese. Un momento molto difficile è stato il risultato del plebiscito popolare del 1989, che ha ratificato la legge dell’impunità (Ley de la Caducidad) nei confronti degli esecutori delle torture e degli assassini. Ma la lotta, nonostante tutto, è andata avanti.

Amalia spiega che per lei, come per molti altri, è stato difficile all’inizio scendere per strada. Era una donna adulta, abituata alla tranquilla vita della campagna, e non è stato facile cambiare prospettiva. Tuttavia è andata avanti e grazie al lavoro dell’associazione si sta avvicinando, un passo alla volta, alla ricerca della verità e della giustizia. L’ultimo successo è stato l’inizio delle ricerche dei resti all’interno delle caserme militari. Un passo significativo, che sarà ancora più rilevante se verranno trovate, di fatto, prove che permettano di ricostruire i fatti accaduti. Il lavoro dell’associazione dei familiari ha permesso di identificare desaparecidos di origine italiana per la cui scomparsa sono in atto procedimenti penali nel nostro paese.

Ad Amalia si aggiungono altre donne, che hanno voglia di parlare e di raccontare la loro storia, ma soprattutto la loro vita e quella delle persone scomparse. Tutte rievocano l’ultima volta che hanno visto il figlio o il marito. E’ un tentativo, probabilmente, di farli rivivere per sempre in quel momento.

La signora Hortencia Pereira, che ha perso il marito León Gonzales, spiega che nei primi tempi si è sentita impotente. Non sapeva cosa fare, sperava che qualcuno, sopravvissuto, potesse raccontare come erano andate le cose.

La signora Luisa Cuesta ha perso il figlio Melo Nebio. Lei stessa è stata detenuta per un certo tempo. Spiega che nessuna di loro sapeva cosa indicasse la parola desaparecido (scomparso). Pensava che suo figlio sarebbe stato detenuto per un periodo, magari torturato, ma poi rilasciato, o per lo meno si sarebbero avute notizie della sua detenzione. "Per lo meno - spiega Luisa - so che mio figlio è morto lottando in nome dei suoi ideali. Mi diceva sempre che era consapevole di poter essere ucciso".

A parlare, infine, è di nuovo Amalia: "Il fatto che ora siamo riuniti in un’associazione ci dà la forza di andare avanti. Di sicuro stiamo meglio dei familiari che hanno deciso di chiudersi in casa, che hanno scelto di restare in silenzio e di vivere in solitudine il proprio dolore. Tuttavia, quello che non potrò mai perdonare ai militari, è di non avermi permesso di sapere, per anni, che mio figlio era morto. Non ho pianto mio figlio perché pensavo fosse ancora in vita. E adesso per me questo significa morire un poco ogni giorno".

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