Elogio del dissenso
L'ultimo numero di Micromega prende spunto dal libro di Paolo Flores D’Arcais "Il sovrano e il dissidente" per un dibattito fra alcuni noti studiosi sui fondamenti della democrazia, in una fase in cui in Occidente appare fortemente inquinata. Il dibattito è stimolante e vorrei esprimere anch’io alcune riflessioni su questa rivista, sempre attenta ai problemi filosofico-politici relativi alle sorti della democrazia.
A me pare che a Paolo Flores D’Arcais e ai suoi interlocutori sfugga che la democrazia non è data una volta per tutte, e che il confronto tra uno schema ideale e quello che passa il convento, per quanto utile, può essere pericoloso. Io partirei dalla constatazione che la democrazia non è, ma nasce, evolve e muore. Come tutte le cose. "Panta rei", lo sapeva anche Eraclito. Alcune tribù dell’America del nord, per esempio gli Iroques (studiati da Lewis H. Morgan, nel suo libro "Ancient Society", e citati da Engels nel suo "L’origine della famiglia, della proprietà e dello Stato") da tempo immemorabile conoscevano la democrazia, che in quel contesto assai semplice era quasi perfetta. Ma altre tribù conobbero invece regimi oligarchici, tirannici, totalitari che specie nel centro America arrivarono a praticare il cannibalismo fra i propri sudditi con pretesti politico-religiosi, in realtà per ragioni di sopravvivenza: la scomparsa del mais e la scarsità di grossi animali da caccia.
La democrazia può essere definita solo in un preciso contesto storico e ambientale, in senso anche geografico. Non si capirebbe altrimenti perché i Greci conobbero la democrazia della Polis, mentre i loro confinanti orientali (Persia, Mesopotamia, Egitto) ebbero i cosiddetti regimi "idraulici" autoritari.
Paolo Flores D’Arcais e i suoi interlocutori hanno della democrazia un paradigma teorico, con alcuni punti essenziali senza dei quali (tutti noi lo pensiamo) la democrazia concreta non esisterebbe. Hanno ragione, sempre che collochino i principi in un preciso contesto, e li pensino in continua evoluzione e sempre in pericolo di tramutarsi nel loro contrari. Si afferma spesso che il fondamento della democrazia moderna è: "una testa, un voto". Perfetto! Ma se la "testa" ha una casa, usufruisce della sanità, della scuola, di un lavoro, di un salario minimo garantito, di una informazione obbiettiva, di una istruzione permanente, della possibilità di interagire con il potere tramite il diritto di opinione, di parola e di organizzazione, allora il suo "voto" sarà motivato e libero. Se invece la "testa" sarà affamata, indigente, analfabeta o quasi, inquinata dalla disinformazione, il suo "voto" sarà anche motivato ma non sarà libero. Le elezioni potrebbero così trasformarsi in un plebiscito che consegna il potere al demagogo di turno (Hitler). Se non si tiene conto del modo di produzione economico e delle necessità biologiche di sopravvivenza, parlare dei diritti di cittadinanza, rivendicare uguaglianza e potere di decisione politica, sono chiacchiere.
Si può obbiettare che in Occidente le società sono opulente. E’ vero, ma è altrettanto vero che questo nostro mondo è indecorosamente privilegiato, non solo sul piano economico ma in quello più importante della informazione e della preparazione culturale. Da questo punto di vista l’analisi proposta nel Quaderno 13 da Antonio Granisci è ineccepibile e insuperata. Ha ragione Franco Cardini quando afferma che la direzione in cui ci stiamo muovendo "conduce alla progressiva trasformazione di tutti i governi del mondo in comitati d’affari (per la verità, già Marx l’aveva previsto), al disimpegno dei cittadini, alla loro progressiva demobilitazione, alla loro riduzione pratica a individui isolati incapaci di reagire all’esproprio sistematico non solo della loro volontà, ma anche della loro coscienza".
Se la realtà è questa, se il Re è veramente nudo, come anch’io credo, è necessario sistematicamente dissentire. Nel capitalismo civilizzato da secoli di lotte operaie la linea del Piave per la difesa della democrazia è quella di impedire la sua trasformazione in televendita e di garantire ogni dissenziente dalla tendenziale dittatura della maggioranza.
La democrazia oggi va dunque intesa come una tragica, avvincente avventura, come "l’incertezza di una rivoluzione permanente possibile".