Matrimonio mosso
L’asfalto è una pozza scura liquefatta dall’afa di agosto. Attendo in macchina, all’ombra con i finestrini abbassati, che il laboratorio apra per ritirare le analisi. Ho dato un altro nome per una forma tutta mia di pudore o per scaramanzia, non so. Ho vent’anni da due settimane e due sono giusto le settimane di ritardo. Ma sono diversi giorni che sento il tipico mal di pancia basso... dovrebbero arrivare. Torno in macchina con la busta chiusa, preferisco sedermi prima di aprirla. Sì, perché morirò sul colpo, lo sento, se il test di gravidanza è positivo. È che non voglio cominci così quel capitolo della mia vita. Ci amiamo, ma sinceramente non abbiamo ancora pensato a un figlio. Siamo troppo giovani. Ma quello che morì fu solo la mia adolescenza ancora da vivere.
Con la tipica ipocrisia dei tempi, a peccato commesso si doveva riparare. Il matrimonio era strada obbligata e bisognava far presto per recuperare tempo e lasciare alla gente almeno il dubbio, fino alla comparsa del pancione. Fortunatamente si sono estinti con il passar degli anni i matrimoni riparatori... e non se ne sente la mancanza! A casa mia quella gravidanza indesiderata fu un dramma. Ero la prima della numerosa parentela. Per la mamma un dolore così grande che si ammalò di cuore e qualche mese dopo finì in rianimazione. Mi rivedo disperata nella sala d’attesa, con il mio pancione di sette mesi e il rimorso che mi porto ancora adesso.
Quanti segnali inquietanti ci lanciò il destino? Tanti, troppi collegandoli insieme. Tutto avvenne come altri stabilirono. Tutti avevano il consiglio giusto. Il ristorante di conoscenti, un’amica con la fioreria, le bomboniere da far bella figura, il fotografo a tempo perso. Noi fummo privati del potere di scegliere, quella gravidanza era dimostrazione d’irresponsabilità. In poco più di un mese ci sposammo e già in chiesa, quasi profeticamente, ci scambiammo l’anello nella mano sbagliata.
Solo a inviti stampati risaltarono quei due numeri fortunati e nefasti insieme: il giorno 13 alle ore 17. Sì perché l’unico contentino fu la cena al posto del tradizionale pranzo. Scelta rivelatasi infelice, perché gli invitati erano anziani o bambini. Niente amici per espresso desiderio dei miei già anziani suoceri, perché non volevano facessero gazzarra e disturbare quella che alla fine fu... la loro festa! Si sposava l’ultimo dei numerosi figli e loro stavano per festeggiare le nozze d’oro. Il “viva gli sposi” era intercalato dal “viva i nonni”! Patriarcale famiglia che sperimentavo in quell’occasione. Fu una cerimonia noiosissima: il contrario di quello che avrei voluto.
Ci aspettava poi una settimana di vacanza all’isola d’Elba. Il traghetto partiva nel primo pomeriggio e c’era il tempo per assaggiare la famosa frittura di pesce che non avevamo mai mangiato. L’appetito stava tornando dopo settimane di tensione. Preso il largo, le onde erano talmente alte da far impennare la nave per farla ricadere con violenza. Cominciai a vomitare il pesce, la cena di nozze e anche la prima comunione. Classica montanara sconfitta dal mal di mare. Ma alla fine stavano tutti male per quella burrasca che rendeva la traversata interminabile. Arrivata a terra, mi girò la testa per due giorni e, nonostante Cavoli fosse una baia deliziosa, non riuscii a rilassarmi al solo pensiero del viaggio di ritorno. Sicuramente in quella graziosa pensioncina sul mare cucinavano dell’ottimo pesce, ma passarono anni prima di trovare il coraggio di riassaggiarne.
Dopo pranzo, mentre prendevamo un caffè sul terrazzo del bar, arrivò trafelata la tedesca che mangiava vicino a noi: “Doktor Doktor, help, hilfe, da da...” e indicava col dito un punto nel mare. Alla fine di quel dito c’era il grosso sedere col costume a fiori di sua madre, che galleggiava. Ebbi un malore e rimasi stesa al buio in stanza bevendo brodino. A colazione la proprietaria ci disse che la signora era viva ma in gravissime condizioni. L’amarezza di quell’episodio si percepiva ovunque e, abbronzarsi o fare il bagno, sembrava quasi un sacrilegio.
Delle tante foto con la macchina fotografica di un amico, si poterono stampare solo un paio di immagini mosse come le onde. A ricordo del fatto che eravamo freschi sposini, fu simpatico trovare il sacco nel letto l’ultima notte. Ma alla partenza il mattino dopo trovammo il finestrino rotto per il furto dell’autoradio. Sicuramente saremmo tornati volentieri a casa, ma casa ancora non avevamo. Lui stava svolgendo il servizio militare e intanto rimanevo dai miei. Nei giorni di licenza a casa dei suoi, nella sua stanza da ragazzo. Senza casa, lui senza lavoro, la mamma in rianimazione, la paura che il bimbo non fosse sano, il timore di non farcela... no, non cominciò bene.
Infatti quando sento, come oggi, i clacson suonare insistentemente per un matrimonio, oltre al fastidio alle orecchie provo dispiacere per loro, per tutte quelle onde che li aspettano. Per cullarli, per travolgerli.