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QT n. 2, febbraio 2010 Monitor: Musica

Jesus Christ Superstar

La bibbia del rock

Il 22 gennaio scorso la compagnia «Rock Opera» ha portato a Rovereto, in un Auditorium “Melotti” traboccante di pubblico, Jesus Christ Superstar. Lo spettacolo, per soggetto e storia, non dovrebbe aver bisogno di molte spiegazioni: in piena epoca hippie (1970) la narrazione musicale degli ultimi sette giorni di Cristo fu dapprima pubblicata in doppio LP (ricordate? quelle cose rotonde e nere piene di solchi...), quindi messa in scena a Broadway (1971) e poi trasposta in un film di Norman Jewison (1973). Gli autori: un... certo Andrew Lloyd Webber, premiato nel 1973 come miglior compositore esordiente (e che carriera: da allora numerosi musical, tra cui “Evita”, “Il fantasma dell’opera”, “Cats”...); e Tim Rice, anch’egli divenuto celebre con i testi scritti per i musical di Lloyd Webber.

Diciamo subito che JCS è un musical molto impegnativo dal punto di vista vocale: i fan del rock rammenteranno che la parte di Gesù era stata interpretata da ultrasonici cantanti come Ian Gillan (solista dei Deep Purple: avete presente “Made in Japan”?) e Ted Neeley (impareggiabile il suo urlaccio contro i mercanti del Tempio). Gli interpreti di tale ruolo, come anche per certi versi coloro che si cimentino con la parte di Giuda, devono essere buoni baritoni capaci di acutissimi falsetti da controtenori. Stefano Pardini e Terry Horn (il secondo dopo un avvio lievemente incerto) hanno mostrato di poter reggere il confronto, sia sul piano vocale, che nella recitazione, eguagliati dagli altri solisti del cast, a cominciare dall’efficace (anche se non potentissima) Maria Maddalena/Elena Nieri. Un po’ freddo è sembrato il Pilato di Matteo Giusti, vivace q.b. Pietro Contorno, sebbene difficilmente comparabile con il grosso, lunatico e giulivo Erode gay del film. Ottima la coppia Annas/Federico Piras (un Nosferatu dalle lunghe unghie) e Caiaphas/Lauro Bernardoni, basso tellurico e misurato.

Un discorso a parte merita il corpo di ballo/coro, per lo più adeguato sul piano vocale, molto meno dal punto di vista coreografico, per via di numerosi momenti tecnici alquanto incerti; va tuttavia detto che il palcoscenico del “Melotti” è parso talora inadeguato per alcuni movimenti scenici. Statica ma piacevole la scenografia di finto marmo bianco; buona l’illuminazione, con la trovata delle luci stroboscopiche nella scena delle 39 frustate.

Per quanto riguarda i costumi, la regia dovrebbe in futuro tener conto della necessità di differenziare meglio seguaci, apostoli e detrattori di Gesù, pena la confusione di ruoli (altrimenti sembra che gli apostoli diventino i principali accusatori del Messia).

Infine, l’orchestra: sette elementi, con tre tastieristi a sostituire gli archi, gli ottoni e tutto ciò che fa “big orchestra”, un super-batterista, due chitarristi e un basso. Eccellenti, malgrado qualche piccolo acciacco di mixaggio, soprattutto per le chitarre.

Tornando al musical, per chi l’ha suonato all’età di 15 anni, imparando a memoria testi e accordi, rivederlo e riascoltarlo costituisce sempre una piacevole rimpatriata, oltre che un’occasione per conoscerne ulteriori dettagli. Una considerazione ci è infatti sgorgata spontanea, come un’illuminazione: a tutt’oggi “Jesus Christ Superstar” resta una vera bibbia del rock e un mirabile esempio di creatività sul piano strettamente musicale; con la profusione di invenzioni melodiche e armoniche impiegate in JCS, Lloyd Webber, come il Donizetti del “Don Pasquale”, avrebbe potuto costruire tre musical invece di uno. Ed anche i testi di Tim Rice, dopo 40 anni, continuano a fornirci spunti di riflessione storico-religiosa, a dirci qualcosa di importante, come se l’abbondanza di comunicazione in cui oggi siamo immersi fosse piuttosto un deserto, che un oceano.

Un biasimo a buona parte del pubblico roveretano, capace di far iniziare lo spettacolo 20 minuti dopo l’orario previsto, con disdicevoli punte di maleducazione da parte di quei 6-7 spettatori accomodatisi in sala ben 15 minuti dopo l’inizio dello spettacolo. Una nota di elogio, invece, per le cortesissime e affabili signore della biglietteria e della sala.

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