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Pediatri di strada

Il problema dell’assistenza sanitaria ai bimbi di immigrati clandestini. Da “Una Città”, mensile di Forlì.

Paolo Cornaglia Ferraris

Quando è arrivata l’ondata immigratoria degli anni Novanta, il servizio sanitario della regione Liguria offriva soltanto, secondo la legge Bossi-Fini, l’emergenza-urgenza, in sostanza il pronto soccorso e l’attività ospedaliera. L’ospedale Gaslini non era preparato ad affrontare quest’impatto, né, d’altra parte, era dotato di strutture ambulatoriali ramificate sul territorio, per cui l’unica possibilità era di essere assistiti dal pronto soccorso. Con un amico avevamo fondato l’associazione "Camici e pigiami" portando avanti delle istanze rivolte a stimolare la qualità della relazione tra medico e paziente e a quel punto ci siamo chiesti se potevamo fare qualcosa. Così, nel 2002, abbiamo affittato una vecchia bottega di ferramenta, e con un gruppo di volontari l’abbiamo ristrutturata, dopo di che un giorno abbiamo aperto la serranda e abbiamo cominciato.

Avevamo già avuto una prima esperienza con un pediatra che aveva avviato da solo l’attività in un vicolo accanto, dentro l’associazione "Città aperta", che assiste gli adulti: lui faceva lì il pediatra un pomeriggio, due ore la settimana, in questa struttura piena di adulti, soprattutto marocchini e senegalesi. Io stesso ho cominciato lì per i primi mesi, poi mi sono reso conto che non si potevano mischiare adulti e bambini, in un contesto così poco rispettoso dell’infanzia.

Di qui l’idea di un ambulatorio pediatrico gratuito per i bambini privi di permesso di soggiorno, figli di clandestini.

Abbiamo trovato questa struttura, all’inizio ci ho messo i soldi dei miei diritti d’autore dei libri, e poi sono arrivati i volontari. Con una colletta, fatta anche coinvolgendo la parrocchia, abbiamo acquistato anche una poltrona del dentista di seconda mano. Io pensavo che non ci sarebbe stato nessun dentista volontario, invece poi sono arrivati. Hanno sempre difficoltà, perché hanno ritmi di lavoro intensi e per loro un pomeriggio significa sacrificare un bel guadagno, per cui tanto di cappello per il tempo che ci dedicano.

L’apertura di questa struttura ha significato un passaparola velocissimo fra gli immigrati, per cui siamo rapidamente arrivati a migliaia di visite.

Siamo situati nel centro storico e attualmente viaggiamo su una media di visite annuali molto alta (più di 1.900 bambini); siamo in sei o sette pediatri, tre dentisti e tre oculisti, con un gruppo di lavoro fatto anche di volontari. Apriamo tutti i pomeriggi, e le mamme che hanno bambini con problemi possono trovare qui un punto di riferimento.

La pediatria di base è sostanzialmente banale. E’ fatta di mal d’orecchi, tosse, mal di gola… Le malattie del bambino piccolo in genere, o le diarree del lattante, o i febbroni virali del piccolino sotto i due anni, son tutte cose molto banali, però il pediatra, in quel caso, serve, anzitutto perché è un punto di riferimento tranquillizzante. Queste persone hanno bisogno di essere rassicurate sul loro ruolo genitoriale, e anche di accedere a farmaci che non hanno i soldi per comprare. Per esempio, la prima volta che ho prescritto dei farmaci per i vermi intestinali, mi sono reso conto la settimana successiva che non erano stati dati al bambino perché costavano 10 euro (io non avevo questo prodotto in ambulatorio); a quel punto ci siamo organizzati anche con un fondo cassa, in modo da dare al farmacista una cifra a scalare.

Per la prima volta quest’anno, i servizi sociali della regione ci danno un po’ di soldi per l’attività di tipo sociale, mentre l’assessorato alla Sanità non ci dà nulla, così come nulla ci danno Comune e Provincia.

Quando il Gaslini dice: "Io non posso assistere bambini per i quali la Regione non mi riconosce una remunerazione", ha ragione, perché non è un’associazione benefica.

I pediatri di base dicono: "Io sono un libero professionista convenzionato, perché devo curare gratis i bambini? Datemi dei soldi in più e lo faccio", ma la Regione soldi non ne aveva, anzi, ha rischiato un commissariamento ministeriale perché il suo deficit di bilancio è diventato importante…

Per la medicina tradizionale la mamma tunisina, la mamma macedone e la mamma ecuadoriana sono uguali. Invece non è così. Che l’allattamento possa essere fatto in vari modi, o che il clistere non si faccia usando la bocca, ma spruzzando nell’ano del neonato l’acqua con una peretta è qualcosa che è vero per noi, ma non per altri.

Ecco, il pediatra interculturale è uno che apprende di continuo, spesso cose anche molto lontane dal suo modo di operare. Questo vuol dire avere un approccio laico e rispettoso, anche di curiosità se vogliamo, certo libero da pregiudizi. Per esempio, per la donna africana la malattia è sempre associata alla presenza di uno spirito maligno, che va anch’esso preso in considerazione. Bene, questo non ci deve scandalizzare. Voglio dire, quante volte abbiamo visto l’immaginetta di Padre Pio sul letto del bambino malato? Ecco, allo stesso modo, se c’è un amuleto che scaccia lo spirito maligno, bisogna avere lo stesso rispetto. Pediatria interculturale, in questo senso, significa imparare a osservare, ascoltare, accompagnare, capire, rispettare.

Qui si presentano mamme nigeriane che fanno le prostitute e magari sono sotto il controllo di una maman che in qualche maniera le schiavizza, perché devono risarcire un debito e devono liberarsi da uno spirito maligno che tormenta la propria famiglia; insomma, ci sono tante cose strane per noi. In questo contesto la malattia del bambino può essere il segno di qualche cosa che non sta andando bene nella loro esistenza, così complessa, tra spiriti, anime, maledizioni, malocchi.

Così va capita la relazione dei genitori arabi coi propri figli, che è una relazione sessista: il bambino maschio ha sempre ragione, la bambina femmina ha sempre torto. Nella relazione di cura con la pediatra femmina, il bambino tende a non farsi visitare, a non obbedire. Il pediatra maschio, peraltro, non deve guardare negli occhi la mamma, perché ciò ha una valenza di provocazione sessuale, ma deve parlare al padre, anche se il padre non capisce nulla e non seguirà il figlio, però deve spiegare al padre perché la madre intenda.
L’indiano del Bangladesh che viene qui con la moglie e coi figli, ha un approccio diverso, è di supporto alla donna. La donna tende ad essere dominante nella gestione dei problemi dei bambini, però lui dev’essere presente.

In conclusione, io credo che nei prossimi dieci anni queste acquisizioni entreranno a far parte della cultura medica ufficiale. La pediatria interculturale diventerà una materia di insegnamento. (…)

La nostra struttura funziona in maniera spontaneistica e totalmente disorganizzata, direi quasi anarchica. Paradossalmente sono stati i volontari che ci hanno imposto un certo ordine.
Io ho cominciato lavorando con Marcello Semprini, che era già sul campo e che mi ha trasmesso un bel po’ di conoscenze. Poi noi due le abbiamo trasmesse agli altri che sono arrivati, per cui c’è stata una trasmissione orizzontale, fatta sul campo.

All’inizio si lavora insieme ai nuovi arrivati, che poi diventano autonomi. In questo modo siamo riusciti a coprire tutta la settimana. Per quanto riguarda la preparazione, abbiamo fatto circolare alcune letture per noi fondamentali, anche sul fenomeno dell’immigrazione.

Ovviamente abbiamo ragionato anche su cose più specifiche: come affrontare la scabbia, i vermi intestinali nelle loro varie forme, e così via; abbiamo fatto pratica sul campo di piccola pediatria. Anche per me le prime volte riuscire a individuare un fenomeno di scabbia in

una pelle nera era difficilissimo, adesso non più: quando ne hai visti tanti…

Inevitabilmente la presenza di tanto volontariato, pur essendo per noi fondamentale, presenta anche delle problematiche, tra cui, in primis, la tenuta sul tempo. Il volontario è, per definizione, una persona che presta gratuitamente la propria opera professionale, e che non può essere chiamato a doveri, se non quelli che lui stesso si dà. In questo senso la struttura deve convivere col precariato cronico, è precaria di per sé.

Tra gli operatori c’è molto ricambio: c’è un dentista che ha fatto un lavoro egregio per tre anni, e che poi ha detto: "Signori, io da quest’anno non vengo più". Ci toglie un servizio fondamentale, per la serietà con cui l’ha impostato, ma se non ce la fa più o non ne ha più voglia… Ecco, questo è un aspetto critico.

D’altra parte, ci sono associazioni di volontariato che sono finite sul versante opposto, trovandosi a maneggiare denaro pubblico fuori da ogni controllo. In questi organismi, garantire la propria posizione, i posti di lavoro, lo stipendio, la convenzione (e quindi appunto i soldi dei contribuenti), diventa talmente importante che si rischia di perdere totalmente lo spirito del volontariato. Resta solo un’azione di supplenza all’attività pubblica, pure discutibile nella propria legittimità.

Il dott. Paolo Cornaglia Ferraris.

Intendiamoci, moltissime associazioni di genitori sono nate attorno a un genitore motivato dalla malattia di suo figlio, che ritrova un senso di vita nel proseguire la battaglia, diventa una specie di crociata. Questo va bene nella misura in cui non legittima il servizio pubblico a scaricare, a demandare. Dove invece l’attività del volontariato, di fatto, rappresenta non più una supplenza temporanea, ma una strutturale e definitiva risposta sociale al problema, secondo me non va bene.

Per la nostra attività spendiamo tra i 12 e i 14.000 euro all’anno, comprendendo l’affitto, la corrente elettrica e il materiale d’uso del dentista, oltre ai farmaci. Sono costi ridicoli a fronte della quantità di bambini che visitiamo e curiamo. Curare la carie di un dente di un bambino costa sette euro di materiale, insomma con quei soldi ne facciamo parecchie!

La spesa maggiore è ovviamente l’affitto del locale; l’altra spesa importante è appunto il materiale del dentista, per il resto ci arrangiamo. In fondo la nostra attività è modesta nelle dimensioni, nella struttura, in fondo anche negli obiettivi. Tanto più che il vero obiettivo è che non serva più. E’ più che altro un evidenziatore di un disagio sociale e sanitario a cui si è risposto in ritardo e spesso in modo poco efficace o addirittura poco sensato.

Quando le mamme badanti sono riuscite a far arrivare qui i loro figli, questi hanno riempito le classi elementari, che tra l’altro si stavano svuotando.

In questa regione hanno istituito l’Stp, che è un codice fiscale, che li identifica, ma non gli dà diritto a una sanità sul territorio, però consente, quanto meno, di accedere con più ordine ai servizi sanitari pubblici e ospedalieri. In Toscana, chi ha l’Stp, invece, ha automaticamente i farmaci e il servizio medico di base gratuiti.

Ogni regione ha fatto un po’ quello che ha ritenuto meglio di fare, quindi si sono create situazioni molto diversificate, e qualche volta francamente inique, nel senso che in alcune regioni il bambino diabetico, immigrato clandestino, era perfettamente assistito, in altre per niente. E’ stato a fronte di questo che abbiamo deciso di muoverci noi…

Paolo Cornaglia Ferraris, medico specialista in pediatria ed ematologia, ha lavorato per vent’anni nell’ambito dell’alta specialità all’ospedale Gaslini di Genova. Ha pubblicato "Camici e pigiami. Le colpe dei medici e il disastro della sanità italiana", Laterza 2003 e "Pediatri di strada", Il pensiero scientifico, 2006.