Si rialza il sipario
Il palcoscenico della vita passando dal teatro.
Appesa la penna al chiodo, mi dedicavo pazientemente al ricamo nell’attesa di rimettermi in piedi dopo quattro estenuanti mesi d’ospedale, dove si erano alternati reparti e stagioni, medici e stati d’animo, malattie e compagne di stanza, lasciandomi sfinita e satura di emozioni contrarie.
Il pensiero si era stancato per primo, andava e ritornava accartocciato su se stesso, su identici discorsi. "Domani esami del sangue, a pranzo gnocchi al pomodoro, no niente febbre, sì, dormo abbastanza, vero è arrivato autunno" … Allora mettevo il pensiero automatico e cambiavo solo condizioni meteorologiche. Parlar di stagioni è sempre una gran risorsa, anche se le vedi alternarsi da dietro la finestra. Il tiepido autunno, il mite inverno, la precoce primavera, la breve e torrida estate… ormai anche le stagioni sono drogate dai gas di scarico.
Insieme al pensiero sono diventate poi automatiche le azioni, ormai prive di piacere. L’orologio in primo piano. Medicine alle otto con la colazione, flebo alle nove, fisioterapia alle dieci e via dicendo. "Sarà mica vita questa qua?" ripetevo. Mancava la via di fuga. Qualche piccola sana trasgressione era impossibile in quell’ordine fisso, asettico, militare, dove estraniarsi è una patologia. Mannaggia, una non può assentarsi dalla noia che subito le fanno una risonanza magnetica!
La malattia come viaggio interiore. La cura di tutte le cure è cambiare punto di vista, vale a dire se stessi, ed essere in armonia con l’universo; i miracoli esistono, ma ognuno deve essere artefice del proprio. Ho abbracciato con convinzione la new age e qualche piccolo miracolo c’è stato. Adesso con i miei bastoni canadesi mi sento una cicogna e vedo il mondo dall’alto; è cambiata prospettiva.
M’interrogo spesso su quale lezione trarre da questa nuova puntata della mia vita, una specie di prova generale dove non mi sono sempre riconosciuta e piaciuta. Dovevo esercitare la pazienza? Sicuramente. Se non puoi più fuggire, se rimani, devi essere molto paziente. Ma sempre più mi chiedo se nel conteggio generale valgono di più gli anni di vita o come si sono vissuti. "Mi riconosco immagine passeggera presa in un giro immortale".
Da poco ho ricominciato a fare qualche uscita in compagnia di amici per andare a teatro e al cinema, ed ora la mia vita ha ripreso sapore. La recente rappresentazione del "Delta di Venere" mi ha lasciato molto perplessa.
Ma cosa ci poteva dire che non sapevamo?
Ridurlo a testo teatrale mi è sembrata una provocazione inutile, che divide ed allontana ancora una volta l’eros maschile da quello femminile.
L’imbarazzo degli attori e del pubblico era evidente. Da non confondere con il perbenismo e la censura; anche se stavamo a pochi metri dal palazzo del vescovo, eravamo tutti adulti e vaccinati, e di sesso, usato e abusato, si parla anche troppo.
Una rappresentazione molto impacciata, anche se regista e attori hanno fatto del loro meglio per renderla scorrevole, ma era proprio il testo che non si prestava. La scelta infelice, poi, di toccare temi come la pedofilia, l’incesto e il sesso con un’handicappata, hanno irritato e fatto scadere la performance. Di questi tempi si poteva evitare.
L’esagitato Henry, sempre sopra le righe, a tratti violento, a tratti infantile, non poteva piacere al pubblico femminile, più incuriosito dall’annoiata Elena/Anaïs che finge un orgasmo, scrive racconti pornografici e accavalla le gambe per compiacere un uomo. Donna fra le tante che accettano di un uomo anche l’erotismo spinto all’eccesso. Che non ci appartiene e ci svilisce.
Tutto perché ci mettono in testa la figura dell’eroe. L’uomo-eroe. Quello che ci sostiene con il solo sguardo. Quello per il quale ci butteremo anche nella fossa dei leoni. Donne bisognose di un eroe. Ricerca vana. Alla fine di tutto il vero eroe è la donna.
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