“Sunshine”
Di Danny Boyle un film di fantascienza (filone apocalittico) dal grande impatto figurativo e che dice qualcosa di nuovo anche sul rapporto uomo-macchina. Peccato che frani nell'ultima mezz'ora...
Il nuovo film di Danny Boyle, "Sunshine", non sa e non può essere all’altezza dei suoi antenati più illustri, che si chiamano "Solaris" e "2001: odissea nello spazio". Il lavoro del regista di "Trainspotting" riesce tuttavia ritagliarsi una propria specificità. Ed è in grado perciò di fornire delle indicazioni utili a chi si interessa del tipo di futuro che costruisce per noi la fantascienza. Insisteremo solamente sulla concezione e sulla prima parte del film, visto che l’ultima mezz’ora è completamente rovinata da un pasticciato inserto a sorpresa che deteriora l’intento del film facendone deviare in modo stupido la progressione narrativa.
Il film racconta la storia di una missione spaziale incaricata di sganciare sul sole una carica atomica capace di ridargli vigore. Perché, nel futuro che il film racconta, succede che il sole si stia spegnendo. Con esso, sarebbe destinata a spegnersi anche la specie umana. Dal punto di vista visivo, il viaggio della navicella "Ikarus 2" è affascinante: una lunga nave spaziale procede verso il sole, spingendo innanzi a sé una bomba gigantesca che funziona anche da scudo contro la forza bruciante dell’astro. La missione si deve preoccupare di difendere la propria zona d’ombra, di mantenere l’approvvigionamento di ossigeno, di effettuare i calcoli esatti per arrivare nel modo corretto sulla superficie del sole. Questo viaggio progressivo verso la luce non ha equivalenti nella storia del cinema di fantascienza. L’idea consente di aprire dal punto di vista figurativo un ampio ventaglio di possibilità inedite. Si assiste ad affascinanti uscite nello spazio di astronauti equipaggiati con grosse tute spaziali dorate. A bagni di sole da una postazione-osservatorio. A giochi astratti con la luce, il fuoco, i pianeti. L’architettura della nave è molto ben concepita dal punto di vista scenografico e le citazioni dalla fantascienza più esistenzialista sono gestite con mano sicura. Insomma, abbiamo davanti un approccio completamente diverso rispetto ai film americani catastrofisti/minaccia-alla-Terra del tipo "Deep Impact" o "Armageddon".
L’equipaggio della "Ikarus 2" è multietnico. Tre astronauti su otto sono orientali. E’ un piccolo campione di umanità capace di collaborare per il raggiungimento di uno scopo. Gli astronauti sono in dialogo continuo con il computer di bordo. Da "Odissea nello spazio" in poi, siamo iper-scettici e preoccupati, quando vediamo che così tante decisioni sono demandate ai calcoli di un computer. Ma sull’Ikarus 2 la dialettica tra uomini e macchina sembra essere produttiva. Il computer può essere disattivato, e ha l’ultima parola soltanto quando ha la certezza che una certa strategia umana farebbe fallire la missione. In un momento del film, si crea dibattito attorno a una scelta che non può essere delegata alla razionalità del computer, perché richiede una valutazione umana sui rischi, sulle potenzialità, sulle probabilità di successo. C’è discussione fra i membri dell’equipaggio, e si propone dapprima di decidere a maggioranza. Ma il comandante della missione ricorda: "Non siamo in democrazia. Siamo una comunità di astronauti e di scienziati". La decisione viene affidata quindi esclusivamente al fisico di bordo, capace di valutare le implicazioni della decisione sul piano logico. Anche per lui, tuttavia, l’interpretazione dei dati non è univoca. Gli si pongono davanti due scelte, ciascuna con vantaggi e pericoli che vanno ponderati in tutta la loro complessità. Un computer non riesce a gestire tutte quelle variabili. Questo momento di "Sunshine" vale come buona pratica: mette in evidenza come le decisioni – nella scienza, nella politica... – debbano essere sempre basate sui dati tecnici; ma le intuizioni, il ragionamento, la volontà, quelli rimangono sempre e solo umani.
Sul tema apocalittico, sul tema dell’estinzione dell’umanità, si dibatte molto in questo nostro periodo storico. Non bisogna però farne una questione troppo personale, visto che l’idea della fine del mondo accompagna l’uomo sin dalla notte dei tempi. Giovanni, per dirne una, scriveva la sua Apocalisse per il cristiani del 94-95 dopo Cristo. Era loro che l’evangelista invitava a stare pronti, perché il giudizio universale era vicino. La nostra narrativa apocalittica, con i suoi continui richiami rivolti all’umanità perché agisca in modo diverso, in un modo più consapevole della fragilità del mondo, può solo aggiornare ai temi della contemporaneità i soliti avvertimenti. Aggiornarli all’era atomica, negli anni ‘50, e oggi al problema del terrorismo internazionale, della guerra permanente, della catastrofe ecologica. Il richiamo di "Sunshine" è bello perché astratto: l’umanità, per una volta, non è colpevole. Non è colpa sua se il sole si estingue. La minaccia è talmente lontana da essere tuttavia capace di riassumere e simboleggiare, come un monito, anche tutte le altre.