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QT n. 21, 9 dicembre 2006 Monitor

Douglas Gordon al Mart

Le installazioni di Gordon, tese a "perturbare" la quiete dell'osservatore.

Tra le opere di Douglas Gordon (Glasgow, 1966) in mostra al Mart fino al 21 gennaio, alcune usano un certo codice linguistico, quello dell’immagine video, una (opera multipla, nata dalla combinazione per questo spazio di opere eseguite sull’arco di quindici anni e più) usa un altro codice linguistico, quello della parola scritta. Ma c’è di più: tra le installazioni video realizzate negli ultimi anni Novanta – ad esempio la ripresa del film di Hitchcock, Psycho – e la più recente “Play Dead; Real Time” del 2003, c’è una diversità - nel modo di fare appello alle nostre capacità di fruizione - che balza agli occhi.

Douglas Gordon, “Play Dead; Real Time”, 2003

Questo “Play Dead” (Fa il morto) è la proiezione video dei movimenti di un elefante (guidato da un domatore che noi non vediamo) che compie dei passi, si sdraia, resta immobile, si rialza e cammina di nuovo. Il coinvolgimento percettivo ed emotivo dell’osservatore è in questo caso notevole, risultato anche di un’accorta strategia di costruzione dello spazio, cui concorre in primo luogo la dimensione stessa dei due schermi, che permette di mantenere l’elefante nelle sue dimensioni reali, ma anche la nostra possibilità di muoverci, di cambiare continuamente punto di vista tutt’attorno agli schermi immersi in un vasto spazio nero vuoto, di incrociare talvolta la nostra silhouette o quella di altri visitatori proiettata sugli schermi, di subire il leggero senso di capogiro per la sommatoria di movimenti diversi (elefante, macchina da presa, noi). In tutto ciò Douglas Gordon dichiara l’importanza che dà alla modificazione dell’ambiente e all’osservatore come parti integranti dell’opera.

Quanto alla scelta del soggetto, egli nega di porsi nella tradizione dell’uso “crudele” dell’animale (nella linea che è stata ad esempio di Kounellis o di Cattelan) ma c’è in ogni caso qualcosa che non ci lascia tranquilli in una ”esibizione” che appare, nel suo realismo, inevitabilmente metaforica, con quel pavimento così pulito e asettico, quella docilità intelligente che assomiglia tanto ad una fatalistica rassegnazione.

Come dice Giorgio Verzotti (curatore con Mirta d’Argenzio della mostra e del catalogo) nel lavoro di Douglas Gordon agisce una poetica del “perturbante”. Tale perturbazione opera molto (non solo) a livello linguistico. Nel caso appena citato agisce soprattutto sulla nostra percezione dello spazio, mentre nel caso di un’opera come “24 Hour Psycho” (che risale al 1993, cioè a dieci anni prima) qui riproposta, la vediamo agire sulla percezione del tempo. Il film di Hitchcock viene rallentato fino a farlo durare 24 ore, e ciò significa che il movimento, i gesti sono appena avvertibili e soprattutto che la suspense, vale a dire il motore stesso del genere giallo, viene annullata. Ecco il diverso trattamento delle nostre capacità di fruizione, di cui dicevamo: sul piano percettivo, questa anatomia dell’immagine filmica portata al parossismo è una provocazione al limite della tollerabilità, che in qualche modo sembra chiedere una partecipazione soprattutto intellettuale.

Un discorso simile vale per “Pretty much every film and video work from about 1992 until now: to be seen on monitors, some with headphones, other run silenty and all simultaneously”, opera presentata la prima volta nel 1999 e poi continuamente integrata con nuove immagini, che combina e rimescola elementi di diverse narrazioni possibili, distribuendoli su molti monitor attivi in simultanea. Dove si conferma uno degli aspetti centrali del suo modo di operare, il “ready made”, il riuso di cose già fatte che, nel suo caso, non sono gli oggetti di duchampiana memoria ma film (interi o in pezzi) in parte già entrati nell’immaginario collettivo, in parte dirette produzioni dell’autore (come il dito invitante che troviamo anche all’inizio del percorso). Anche qui, la scelta dei soggetti è tutt’altro che casuale, tutt’altro che tranquillizzante.

L’ultima opera di cui parliamo rimanda agli esordi del suo lavoro, la fine degli anni Ottanta, dove la poetica del “perturbante” di Gordon si applica alla parola, alla parola trascritta. Qui ci troviamo a salire e scendere, risalire e riscendere il deambulatorio che circonda la piazza del Mart: ancora l’importanza del contesto ambientale, in una passeggiata che può ricordare un breve pellegrinaggio o un più laico cammino filosofico, a leggere con sguardo nuovo un gran numero di “ready made” verbali, una quantità di brevi frasi colte più o meno casualmente, strati di senso e non senso di cui è portatore il linguaggio quotidiano, con una certa insistenza, ci è sembrato, su frasi intrise di un senso a volte velatamente, a volte apertamente colpevolizzante (Noi siamo il male).

Le scelte di Gordon ci dicono insomma che la quiete che egli intende disturbare, con la nostra attiva partecipazione, riguarda l’ordine dei linguaggi, ma è anche la quiete del nostro sguardo sulla realtà.

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