Tristezze di Primavera
Nonostante l'eccezionale bravura della compagnia, l'ultimo lavoro di Eimuntas Nekrosius, "La primavera", risulta deludente. Anzi noioso, quando non demenziale.
Una delusione. Dopo la trilogia "Macbetas/Otellas/Amletas" ero in sintonia con stile e linguaggio di Nekrosius, ma ciò non mi ha immunizzato contro i limiti del regista. Non potendo appoggiarsi alla solidità di Shakespeare, dà sfogo a un’inventiva che, purtroppo, perde la bussola in fretta e facilmente. Donelaitis, con la "Genesi" sua ispiratrice, è solo uno spunto per un accumulo di simboli freddo, colto, fine a se stesso, per quanto molti vi vedano una ventata di freschezza. Gli attori urlano, si dimenano e prendono a calci, si frustano, ridono sguaiatamente, piangono… azioni di per sé legittime, purché proposte in modo intelligente e sensato. Manca una trama? Pazienza. Manca la logica? Pazienza. I personaggi sono macchiette, le situazioni fasulle, le gioie dolori? No, non ci siamo: il risultato – con poche eccezioni – è semplicemente noioso e demenziale.
Qualche sequenza richiama, forse di proposito, "Voci nel tempo"; ma nulla o quasi rimane di quello sguardo profondo e delicato con cui Franco Piavoli ritrae le stagioni nel suo film; il ciclo della vita, che abbraccia uomini e natura, diviene un esercizio di stile, uno sfoggio dotto e ermetico che fa il verso alla purezza dei sentimenti. Che le due opere abbiano almeno un punto di contatto lo dimostra la presenza (non accreditata) in colonna sonora del Canone in DO maggiore di Johann Pachelbel, leit-motiv di "Voci nel tempo", simbolo dell’anno ritornante. Non tutta farina di Urbaitis, dunque, le musiche, vero collante dell’azione come avviene in quasi tutto il teatro e il cinema oggigiorno.
Di originale e bello, o commovente, emergono rade tracce: il finale in altalena, gli oggetti in legno e l’uomo che torna in fasce sono elementi d’autentico lirismo; efficace e poetico, ma sopravvalutato, il filo rosso che cuce la ferita dell’adolescente. Eppure qualcosa non torna: il colore, innanzitutto, non è adatto: la sfumatura "sanguigna", voluta, contrasta con la guarigione che vorrebbe rappresentare. Inoltre, parole come "la vittima piange e il pubblico può percepire il suo dolore; come nessun altro nel teatro contemporaneo, Nekrosius è un maestro nell’ottenere l’effetto dell’empatia mediante riflessi fisiologici di autodifesa" – parole con cui lo spettacolo è presentato nella brochure – sono di un’ingenuità disarmante. Da quando mostrare le lacrime per impietosire è indice di genio? La stessa Hollywood è prudente su questo terreno, mentre il regista padroneggia i simboli (specie l’acqua) in modo incerto e ripetitivo.
Nulla da eccepire, invece, sulla bravura – davvero straordinaria – della compagnia, che conferma una preparazione completa dalla recitazione alla mimica, fino alle doti acrobatiche da stuntman. Come si dice in questi casi, "degna di miglior causa".