“Curlew River”: in hoc signo vinces
Il difficile lavoro di Benjamin Britten, una parabola per chiesa trasformata in opera per teatro, ottimamente reso dal regista Andrea De Rosa. Una scommessa ardita; e vinta.
La grossa fune che attraversa la platea, ha origine nel vestibolo del teatro e va a perdersi in alto,
tra le nebbie del palcoscenico: ora rappresenta la cima con cui il Traghettatore governa la vela, ora il corrimano al quale si aggrappano i passeggeri per scendere dalla barca, ora rievoca l’infinito e possente cordone ombelicale, tinto di rosso dalle luci di fondo, che guida e lega la Donna Pazza alla tomba in cui giace il suo bimbo morto, e al cielo dove sarà salita la sua giovane anima. La fune divide il teatro a est e ovest, come recita il testo; si interseca con la buca dell’orchestra, che rappresenta il Fiume del Chiurlo, suggerendo così una struttura cruciforme del teatro, come si trattasse di una chiesa, riecheggiata dalle luci verticali che si incrociano con quelle orizzontali, di taglio, sul palcoscenico. In hoc signo vinces.
Il teatro è una chiesa, ma anche una nave, dove anche il pubblico è imbarcato, con la prua rivolta al nord mistico, il luogo dei miracoli, la tomba del bambino e il cielo nebbioso. Al centro, dove solitamente siedono almeno cento persone sulle rispettive poltrone, sta invece una cornice quadrata piena di sabbia, come fosse la tolda o il cassero della barca-traghetto (in cui sono raccolti i passeggeri attivi della rappresentazione), all’interno della quale si narrano storie di dolore, di fede e di speranza. La gomena sottesa tra ingresso e quinte teatrali, tra poppa e prua del teatro, oscilla blandamente, alludendo così al rollio dell’imbarcazione su cui tutti, cantanti, orchestra e pubblico, si trovano.
La Donna Pazza è vestita di rosso scarlatto, è cieca, ha movenze di personaggio del teatro Nô giapponese: il cantante Mark Milhofer, tenore, con la sua voce limpida e la sua recitazione intensa regge sulle proprie spalle metà della rappresentazione: cattura l’attenzione, coinvolge emotivamente, si fa credere donna e disperata. Il suo canto è a tratti struggente, nelle dissonanze che Britten ha voluto, per una voce letteralmente fuori dal coro, deviante, solitaria rispetto alla struttura melodica - di per sé rarefatta - della composizione.
Gli stessi coristi, dieci, per la maggior parte del tempo di spalle rispetto al direttore d’orchestra, quasi si governano da soli, "costretti" ad essere solidali con i solisti, come veri pellegrini riuniti casualmente su una barca a vela, per un breve percorso di viaggio ed esistenziale. Ne risulta un’esecuzione intuitiva, sganciata dal meccanico e abituale riferimento alla figura del direttore. Difficile, bravi. Persino l’orchestra è rarefatta, per volontà del compositore, evidentemente. Sette elementi: arpa, organo, flauto, corno, viola, contrabbasso, percussioni, che non di rado ricreano un panorama sonoro onomatopeico che evoca il verso degli uccelli palustri, talora imitato dal canto, quasi a suggerire il nervoso volo circolare dei volatili disturbati dalla presenza umana.
E’ facile creare bellezza con le opere liriche di cassetta, che il pubblico è già predisposto ad applaudire; molto più difficile è suscitare il piacere estetico con proposte coraggiose e rischiose come questo "Curlew River" di Britten. Che importa se all’inizio sembra di troppo - sui tre complessivi - un ingresso-uscita del coro; che importa se la scena, verticalizzata, costringe lo spettatore a una ginnastica cervicale oscillante tra i sopratitoli proiettati sopra il boccascena, i cantanti sul palco e quelli in platea; e come possiamo lamentarci per la polvere sollevata dai movimenti dei cantanti sulla sabbia, se essi stessi svolgono stoicamente il loro ruolo, benché a stretto contatto con essa...
La scena finale, l’apertura del sepolcro, con quelle luci caravaggesche oblique, con il bimbo che per pochi attimi abbandona la propria sepoltura per sciogliere la benda dagli occhi della madre, donandole la pace e promettendole di rivederla alla fine del tempo, con la Donna Pazza inginocchiata di profilo, appoggiata al bastone... tutto questo costituisce un plusvalore estetico, un appagamento emotivo che le nostre oneste perplessità critiche non riescono a dissolvere.
Il regista De Rosa, il Centro Santa Chiara, i cantanti, il coro e il maestro Azzolini, l’orchestra e il direttore Iorio, lo scenografo Tramonti, la costumista Patzak, il direttore delle luci Mari, lo staff, hanno vinto la scommessa. E’ possibile mettere in scena, a teatro, ciò che era destinato allo spazio ristretto di una chiesa; è possibile, a Trento, portare opere pur di oggettivamente non facile impatto, come questa commistione (felice) di canto gregoriano e teatro Nô; è possibile dare spazio a registi coraggiosi, disposti a giocarsi la faccia al di fuori dell’ovvio e dell’ordinario.
Qualche imperfezione? Quisquilie. In hoc signo vinces.