Persiani di Baghdad
Il dramma di Eschilo, nell'allestimento del Teatro Stabile del Friuli, riproposto fedelmente eppur attualizzato: un vero evento, un momento di grande cultura.
Un evento: "I Persiani" di Eschilo, diretti da Calenda, lo sono davvero. Il teatro greco a Trento è una rarità, ma soprattutto è ammirevole com’è stato allestito, musicato, interpretato.
Partiamo dalla scenografia, ripensata rispetto a quella all’aperto con cui si è inaugurata la tournée. Il mosaico della battaglia di Isso non è più sul pavimento, ma in verticale, sullo sfondo, coperto da un telo quasi per l’intera tragedia; il che accentua il mistero e costringe a una diversa soluzione per la nékyia (l’evocazione dai morti) del re. In origine Dario appariva come un’ombra nella nebbia dal fondale; qui emerge solo la sua testa da una botola abilmente camuffata, tanto da sembrare una fenditura tra il nostro mondo e gli Inferi. Di là dai singoli accorgimenti, spicca l’atmosfera claustrofobica della rappresentazione, chiusa dalle pareti del palcoscenico; una sensazione opposta allo spazio aperto di Siracusa. Il teatro diventa, anche fisicamente, il luogo angusto dell’interiorità.
I costumi rendono bene la desolante corte persiana prostrata dalla guerra, che stride con la leggendaria ricchezza dell’Oriente. I consiglieri portano lobbie, giacche, occhiali… l’attualizzazione ha una patina di "vecchio", non appartiene all’età classica ma nemmeno al presente; è un passato recente e indefinito, un medioevo in cui tutto rischia d’andare perduto. Gli anziani "professori d’arte" tentano di salvare il salvabile, gli ultimi barlumi d’una grande civiltà in declino. Quando entrano, il silenzio è prolungato, opprimente, permeato da un’aura sacra che solo un applauso (importuno) interrompe. Brano a brano ricordano il testo, recitano a turno le parti dei protagonisti, ricomponendo quel mosaico che essi stessi proteggono e nascondono alla vista: il telo copre la nudità del disastro che è già Storia, ma di cui a Susa non è ancora giunta notizia.
Moderna e fedelissima, la traduzione della Centanni restituisce la fresca arditezza linguistica di Eschilo, di cui il coro sottolinea il pathos senza eccessi. Al centro restano il dolore, l’orrore e la follia della guerra. Il patriottismo è in secondo piano, nessuna autocelebrazione dei vincitori: come se oggi il popolo di Baghdad rappresentasse il dramma dei bombardamenti, dal proprio punto di vista, davanti al Congresso degli Stati Uniti. Il parallelo geopolitico, piuttosto ovvio ultimamente, fa riflettere, dato che l’odierna Persia si chiama Iran e l’odierna Babilonia Iraq (sebbene Baghdad, fondata dagli abbasidi nel 762, non fu mai persiana).
Un gigante Lazzareschi nei panni del messaggero e dell’ombra di Dario; stordisce ma incanta il recitare spezzato di Piera Degli Esposti, mentre Ruggieri è un disperato e convincente Serse.
Di spettacoli così, classici e non, la nostra cultura dovrà sempre dissetarsi per crescere, purificarsi, per non dimenticare.