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QT n. 20, 27 novembre 2004 Monitor

“La sposa turca”

Il turco-tedesco Fatih Akin ci propone una riuscito esempio di multiculturalismo con un film che mescola nella trama, ma anche nello stile, le due culture.

I film "di immigrazione" fanno ormai quasi genere a sé. Molti di questi hanno avuto una buona
accoglienza e, soprattutto le commedie, un discreto successo di pubblico. Spesso i registi sono loro stessi giovani immigrati di prima o di seconda generazione: italo-turchi (Ferzan Ozpetek, "Il bagno turco - Hamam"), libano-svedesi (Josef Fares, "Jalla! Jalla!"), franco-tunisini (Abdel Kechiche, "Tutta colpa di Voltaire"), anglo-indiani (Gurinder Chadha, "Sognando Beckham")… "La sposa turca", film del regista turco-tedesco Fatih Akin, si inserisce in questo filone variegato, aggiungendo di suo qualcosa che al genere forse ancora mancava: una dimostrazione anche formale di quello che la trama vuole raccontare, cioè il realizzarsi del multiculturalismo. "La sposa turca" riesce infatti a mettere insieme non solo i contenuti tematici di due culture - quella turca di origine e quella tedesca di adozione - ma anche due registri stilistici, ovvero due modi diversi di ragionare sulla narrazione.

Il film, ambientato ad Amburgo, è la storia dell’incontro tra Sibel e Cahit. Sibel è una ragazza ribelle. Vuole trovare un marito per potersi emancipare da una famiglia in cui padre e fratello giocano i classici ruoli di controllo. Cahit è un aspirante suicida, uno che non sa cosa fare della sua vita. E’ Cahit, turco come lei, colui che Sibel presceglie come suo sposo. La relazione tra i due inizia quindi come una furba variante "di seconda generazione" del matrimonio di convenienza, ma non ci metterà molto a trasformarsi in qualcos’altro.

La novità de "La sposa turca" non sta tuttavia nelle note di trama. Piuttosto, come dicevamo, è il registro stilistico che rende prezioso questo film, perché la storia è raccontata in modo da far sposare (e questo sembra un matrimonio d’amore) due visioni dissimili: quella di un cinema d’autore europeo (stile "Naked" di Mike Leigh) e quella di un cinema popolare non occidentale, con riferimenti ai melodrammi della Hollywood sul Nilo di Yussef Chahine. Nella prima parte amburghese, lo stile narrativo è appunto quello del cinema colto europeo che si preoccupa di descrivere il malessere esistenziale, l’alcool, la droga, l’integrazione, il caso che fa incrociare i destini. La fotografia è fredda e i personaggi maledetti, con esplosioni di violenza improvvisa che richiamano anche altro cinema d’autore, l’estremo oriente di Takeshi Kitano. Piano piano, mentre scorrono i minuti di una pellicola che sembra tagliabile, troppo lunga, eccessiva, ci rendiamo conto che non stiamo davvero guardando un film d’autore europeo: il film di Fatih Akin non racconta una piccola storia, un’idea minima portata fino in fondo. Progressivamente, si sente sempre di più il peso di un’anima diversa che alla fine diventa dominante. Nel momento in cui l’azione si sposta a Istanbul, la narrazione inizia a girare a spirale, ad avvitarsi, ad allungare i tempi, a sommare le invenzioni di una sceneggiatura che non si rassegna a chiudere la storia. E in questo barocco emerge prepotentemente una traccia di puro melodramma, con il suo seguito di passioni e mortificazioni. E’ così che questa forma ibrida tra cinema d’autore europeo e cinema popolare delle aree islamiche del Mediterraneo ci parla, sia nella sua componente narrativa che in quella stilistica, di distanze e di come superarle.

In quest’ottica, si spiegano meglio alcune piccole scelte di regia. Intanto, le cartoline turistiche di un complessino che suona musica turca sulle rive del Bosforo, con dietro una veduta sulle moschee. Se nella parte tedesca gli intermezzi sembrano semplici souvenir culturali, poi si riveleranno per quello che sono: momenti di respiro all’interno del melodramma, abituali nel contesto dei simil-musical egiziani. E’ una scelta di alleggerimento mutuata pure da Lars Von Trier ne "Le onde del destino", che non per niente è un mélo.

Anche le ripetute inquadrature di aerei in partenza o in atterraggio fanno tanto cinema popolare. Meglio: fanno proprio serie b. Mostrare un aereo non è certo indispensabile per comunicare allo spettatore uno spostamento da un luogo a un altro, da Amburgo a Istanbul o viceversa. Però fa riflettere che alla fine - nel momento del viaggio più importante, quando Cahit va a Istanbul per cercare Sibel - non si vede proprio nessun aereo. Anche questa scelta di regia, allora, è ragionata: l’ultimo viaggio di Cahit è talmente carico di significato (e di amore) da non aver bisogno di nessun mediatore.

Ai registi di riferimento citati finora va senz’altro aggiunto - è la fonte d’ispirazione principale - il cinema pieno di matrimoni scalcagnati di Rainer Werner Fassbinder.

Ma allora questo che cinema è? Viene dall’Europa o da fuori dell’Europa?

In tempi di controverse domande di ingresso nell’Unione, "La sposa turca" ci parla di una Turchia che in Europa c’è già, con tutto il suo patrimonio di cose non-europee.

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