W lo sport, ma senza obbligo di vittoria
Troppi genitori e allenatori tormentano i propri figli sognando il grande campione.
Che lo sport rivesta un ruolo importante nella formazione di un bambino, è innegabile: lo sport è gioco, divertimento, un modo di socializzare. Spesso, purtroppo, l’unica finalità dello sport è invece l’agonismo: chi pratica sport deve dare il massimo per vincere a tutti i costi già nei primi anni di accostamento alle varie discipline.
Dedico tutti i miei fine settimana all’attività del cronometraggio e per quattro mesi all’anno sono in pianta stabile sul parterre d’arrivo delle gare di sci. Nella pratica del fondo spesso osservo bambini che già a otto anni si cimentano in prestazioni agonistiche; li vedo tagliare la linea del traguardo, se non buttarcisi sopra, stanchi morti, con le lacrime agli occhi, a volte inebetiti dallo sforzo, ma quello che colpisce ancora di più è il comportamento dei loro genitori e degli allenatori.
Si assiste a commedie tragicomiche, laddove i ragazzini sono delle marionette impaurite, infreddolite, e in alcuni casi disinteressate, succubi delle raccomandazioni anche tecniche di mamma e papà, muniti di macchina fotografica e telecamera, desiderosi di fare del loro figlioletto un campione. A nulla servono le sollecitazione degli addetti ai lavori di abbandonare la pista, di non rincorrere i bambini, di non buttarsi sull’arrivo come forsennati per fare la ramanzina oppure immortalare la grande prova sportiva. Questi genitori hanno mai tenuto in considerazione le motivazioni ed i veri desideri dei figli?
E’ innegabile che per genitori ed educatori sportivi non sia facile trovare un giusto equilibrio nell’applicare una corretta pratica educativa dello sport; l’impegno di un bambino dagli 8 ai 13 anni (categoria baby) è di tipo istintivo, facilmente influenzabile. Ma dato che le pressioni motivazionali esterne vengono fatte proprie dai piccoli atleti, dato che gli adulti rappresentano per loro dei punti di riferimento da ascoltare e seguire, forse sarebbe il caso di focalizzare meno su questi bambini troppo aspettative, troppe responsabilità che non tengono conto delle loro capacità e volontà.
Giuseppe Giovanelli, presidente trentino della Fisi (Federazione Italiana Sport Invernali), così commenta l’avviamento precoce dei bambini all’attività agonistica: "Secondo il mio parere, che comunque ricalca il pensiero della Federazione, l’avviamento precoce all’attività sportiva di tipo agonistico non è per nulla educativo e addirittura deleterio allo sviluppo armonico del giovane. Noi cerchiamo di combattere questo atteggiamento, ma purtroppo, anche non volendo, ci siamo dentro, accettando di promuovere attività agonistica per avvicinare i ragazzi già dai primi momenti di pratica sportiva. Nei circuiti organizzati dalla FISI abbiamo comunque introdotto per le categorie dei più piccoli (baby e cuccioli) alcune prove di abilità non cronometrate, anche se questo cozza contro la volontà degli allenatori e dei genitori...
L’ideale sarebbe poter istituire circuiti di mera abilità fisica ed intelligenza motoria senza fini agonistici. Ma la realtà è ben lontana dall’accogliere questa proposta. Sono rimasto scandalizzato sentendo che in alcune realtà sportive si parla di organizzare un circuito agonistico children mondiale. Sarebbe un grave errore, un ulteriore sovraccarico di responsabilità per i bambini".
Come spiega gli atteggiamenti dei genitori? E questa pressione sui figli funziona a livello di risultati agonistici?
"I genitori hanno delle aspettative esagerate, ben lontane dalla realtà e dalle vere capacità dei loro figli; è l’esigenza di tramutare in realtà dei sogni mai realizzati. Il genitore vuole realizzare se stesso tramite il bambino. Ma questo comportamento è pericoloso e contribuisce ad un altrettanto precoce abbandono dell’attività. I ragazzi arrivano a 15 anni con una carriera agonistica decennale e a quel punto abbandonano, stufi e stressati. Nella nostra realtà cerchiamo in tutte le maniere di frenare questo fenomeno: il bambino non va sovraccaricato di aspettative ed oneri, non va troppo responsabilizzato, psicologicamente è ancora troppo instabile."
Gli allenatori che ruolo hanno in tutto questo?
"Non si atteggiano come i genitori, ma poi esigono altrettanto nel raggiungimento dei risultati. Anche loro spesso devono fare i conti con genitori che, senza competenza alcuna, si intromettono addirittura nelle scelte tecniche. Sull’argomento mi piace portare l’esempio di Davide Simoncelli. Quando era un ragazzo e come tutti gli altri si allenava sulle piste di casa, non ho mai visto i genitori forzare la sua volontà. Nessuno si è mai intromesso nel suo percorso agonistico. Davide si è impegnato e quando è stato il momento è riuscito. Anche l’allenatore deve stare attento: i bambini credono in lui, lo ascoltano come un padre".
Lo sport, insomma, deve restare un gioco, e la vittoria non può essere un obbligo.
"Questo è un principio basilare per approntare uno sport per tutti! Purtroppo l’ambiente sportivo e familiare spesso non la pensa così. Lo sport frustrante, responsabilizzante, è diseducativo. Lo sport è una scuola di vita, questo non lo è".