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Segni di cinema e poesia

50 disegni di Fellini ne ripercorrono la straordinaria carriera artistica.

Sono passati dieci anni dalla scomparsa di Federico Fellini, anni carichi di riflessioni e contributi critici importanti, a tratti onnicomprensivi, tesi a sviscerare tutti i segreti della sua prorompente personalità. Eppure non invidio chi già tutto conosce e sa, per lasciarmi ancora prendere dall’emozione di fronte alle tracce di una sensibilità altissima, giocosa e ironica come poche. Qualcosa salta sempre fuori: nella Torre Avogadro a Lumezzane Pieve (prov. di Brescia) una mostra dedicata al regista ne ripercorre la vita e la carriera artistica attraverso una cinquantina di disegni, dal momento dello sbarco a Roma in un clima di surreale euforia fino agli ultimi capolavori, tutti accomunati dalla centralità di questa esperienza come essenza fondante della sua inimitabile arte cinematografica.

Non si può tralasciare la considerazione che l’elemento umoristico e caricaturale dei suoi primi disegni caratterizzerà la cifra stilistica di artisti come Cesare Zavattini, Mario Monicelli, Castellano e Pipolo, Ettore Scola, Leo Benvenuti e tanti altri. Convergenze e sintonie quindi intorno alle contraddizioni di una società in movimento, ma anche una scelta di campo precisa, da parte di Fellini, di rivolgere sul suo Io la sfera d’indagine e d’interpretazione del mondo.

Se la ricerca di una modalità razionale d’esistenza e di convivenza s’è rivelata un fallimento (due guerre mondiali possono anche non bastare), non resta altro da fare che mostrar-lo questo sporco mondo (neorealismo) o viver-lo interiormente, lasciando spazio al mondo sotterraneo del sogno. Con la caricatura, la deformazione satirica e grottesca inizia e prende forma un mondo altro, fantasmatico e poetico allo stesso tempo, mezzo d’espressione liberatorio, esperienza primaria tattile. Non Giulietta quindi, ma le montagne incantate, tette e carni tutte, per intenderci, di Anita. Il colore si fa tenero e stellare nei supporti delle suddette, di contro all’indifferenziato nella determinazione dello sfondo ("per Anita abito lungo blu notte con una spirale vertiginosa di stelline come la via Lattea").

Di fronte alla nullità della storia umana c’è tutta la superiorità dell’urlo primordiale del senso: la Gigantessa accosciata del Casanova è fuori posto, è fuori e basta, appartiene al mondo degli dei o degli uomini di un’altra età, quelli che sperimentavano le forme linguistiche primarie.

Gli artisti veri si riconoscono dall’odore e si cercano: Fellini va a chiedere ad un altro "uomo primitivo" come Andrea Zanzotto, di risolvergli un problema linguistico per le prime scene del Casanova. Ebbene, qualche giorno prima di andare a Lumezzane avevo comprato il libro Filò del poeta di Pieve di Soligo e ho letto per la prima volta la lettera del regista. Casuale o causale, lascio a voi decidere. A dirvela su due piedi è stato bellissimo scoprire questa condivisione, questo travaso, questo provare "a cavar su’l parlar vecio, ‘sto qua che senti ades/ quel che par mi l’è de la testa-tera..."

Fellini chiede a Zanzotto un lavoro da talpa (testa-tera) alla ricerca di una lingua originaria, "lingua del nutrimento e dell’affettività primitiva" (Stefano Agosti); ha bisogno di un qualcosa che lo riporti a questa "sonorità liquida, l’affastellarsi gorgogliante, i suoni, le sillabe che si sciolgono in bocca, quel cantilenare dolce e rotto dei bambini in un miscuglio di latte e materia disciolta, uno sciabordio addormentante", un qualcosa fuori dai codici, fuori e basta. Qui mi fermo, la mostra chiude il 28 marzo, il libro Filò lo potrete richiedere in tutte le librerie e biblioteche, con la possibilità che siate voi a chiudere questo pezzo.

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