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Ernesto Balducci, seminatore di cultura, d’inquietudini, di speranza

Padre Ernesto Balducci a dieci anni dalla morte. Da Qualevita, bimestrale de L’Aquila.

Ettore Masina

Anche in me, sopra ogni altra, prevale l’immagine di Balducci nella Badia Fiesolana. Quando noi foresti vi giungevamo, percepivamo che la Badia, la comunità che vi si raccoglieva erano per Balducci il centro della sua cosmogonia.

Mi è capitato di dire una volta che Balducci abitava la Badia come l’indio amazzonico abita la propria capanna: e cioè come il centro del mondo, spazio sacro nel quale non soltanto egli vive, ma anche seppellisce i suoi morti, a reciproca custodia. Dunque anche nei miei ricordi prevale la figura di un Ernesto in qualche misura davvero abate, benché senza titolo ecclesiastico; il quale celebrava liturgie e accoglieva fiorentini o fiesolani, ma anche persone giunte da ogni parte d’Italia per deporre nel suo cuore sacerdotale e davanti alla sua limpida ragione dolori e problemi; il Balducci che nella Badia riceveva dai confratelli e dagli amici affetti, notizie, consigli, persino sorridenti rimbrotti per quel tanto di narcisismo che c’era in lui, com’è inevitabile per tutti gli intellettuali; e aveva amanuensi devote e capaci che ci hanno conservato il tesoro delle sue parole; e pie donne che si occupavano dei pranzi per lui e 5 suoi amici, spazio conviviale in cui Ernesto si apriva ai suoi rari, ma così limpidi, sorrisi. Insomma nei ricordi di noi che tante volte approdammo alla Badia è difficile enuclearlo da quella dimora, la quale - pietre e creature - era per lui una casa-madre, chiostro popolato di voci amiche, "portico di Salomone"; in cui gli era indispensabile tornare rapidamente, quando ne era partito.

Ma ora voglio parlare del Balducci pellegrino, itinerante. Non per viaggi in terre lontane: quelli, in qualche misura, egli non li sentiva necessari. La sua cultura, la sua insaziabile fame di culture altre e di notizie significanti, la vastità della sua erudizione, la capacità di manovrare una sterminata biblioteca (che non stava tutta negli scaffali ma anche nella sua prodigiosa memoria) gli rendevano possibile raggiungere i luoghi più alti e drammatici della storia umana: senza muoversi dalla Badia, Balducci scendeva fra le immense folle radunate da Gandhi lungo le rive del Gange, o saliva i sentieri scoscesi delle Ande percorsi dalle torme dei conquistadores ossessionati dalla smania dell’oro; camminava idealmente sulle strade silenziose dell’Umbria, con Francesco e con Chiara; e in tutti questi cammini non avanzava soltanto con l’acume e la scienza interpretativa ma anche con la capacità di cogliere le sofferenze dei vinti, le loro disperse memorie, le massacrate speranze: il figlio del minatore del monte Amiata non dimenticava mai la preziosità germinativa delle lotte e delle sofferenze dei poveri.

E proprio la partecipazione al dolore della povera gente gli faceva contemplare con orrore le guerre: le tecnologicamente ferocissime, come quella del Golfo, e le più ancestralmente selvagge, come quelle balcaniche di cui intravide i primi lividi bagliori. Soltanto la detestazione per la disseminazione di dolori, per la stupidità, per la follìa, per la teratologia di tutte le guerre, qualunque etichetta esse portassero, fece progettare a Balducci, alla fine del 1990, per un istante, un viaggio geograficamente lungo e politicamente rischioso: pensò di accompagnarsi a Raniero La Valle nella missione a Baghdad intesa ad annunziare allo spietato raìs iracheno la grandezza della pace e a fargli rilasciare gli ostaggi occidentali che egli aveva sequestrato.

Ma non è nemmeno di questi viaggi al di là del nostro Paese che io voglio parlare, è di quelli per i quali si può dire che Balducci arò l’Italia cristiana (e forse soprattutto quella non-cristiana) col vomere della sua fede, irruente e insieme mai dimentica delle esigenze dell’intelletto; e seminò ovunque l’Evangelo che gli bruciava nel cuore. Voglio dire qualcosa del Balducci viaggiatore nella cosiddetta periferia, e cioè non soltanto a Roma ma anche nei luoghi lontani dalle metropoli o dalle città di cultura prestigiosa. A ben pensarci, già l’apparato ecclesiastico aveva più volte deciso di collocare Balducci, per così dire, in periferia, fuori porta: a Frascati e non a Roma; poi non nel centro di Roma ma nella parrocchia periferica di S. Francesco a Monte Mario, poi a Fiesole e non a Firenze. Compromessi miserandi, puntigli clericali che oggi ci appaiono ridicoli. La Badia Fiesolana non fu certo luogo d’esilio; aveva anzi, soprattutto agli inizi, molte possibilità di diventare devoto buen retiro, o, peggio ancora, istituzione paralizzante. Il Balducci "abate" non si rinserrò nel suo chiostro. Con quasi temeraria generosità aderì alle richieste che gli venivano incessantemente rivolte da gruppi e comunità che con lui volevano rileggere il Vangelo e i segni dei tempi. La sua ruvida dedizione non ebbe limiti al riguardo. Oggi che è diventato abituale per tanti intellettuali (qualche sacerdote fra essi) muoversi solo dopo avere ricevuto assicurazioni sulle dimensioni numeriche e qualitative del pubblico e sull’entità del cosiddetto gettone di presenza, appare ancora più toccante la disponibilità di Balducci a donarsi gratuitamente, sino all’esaurimento delle forze. Perché non della fatica sui libri, non di una malattia, non di un impazzimento delle cellule è morto il nostro amico, ma della sua fatica di evangelizzatore. Se si pubblicasse l’agenda dei suoi viaggi, apparirebbero chiare - e sorprendenti - le dimensioni per così dire geografiche della sua dedicazione alla costruzione di una Chiesa che sapesse immergersi nel futuro per accogliere le sfide della liberazione dell’uomo; e della sua convinzione che questa Chiesa non potesse nascere senza radici che si allungassero nell’humus di quella che appunto abbiamo chiamato periferia.

Quando guardiamo al suo ingegno sfolgorante, a quelle sue prontezza ed eleganza di eloquio, ai suoi libri, alla sua santità (uso con convinzione questa parola forte per dire della sua intensità di preghiera, della delicata tenerezza che egli seppe donare ai dolenti che gli si presentarono o che egli andò a trovare, per esempio nelle carceri), quando ricordiamo tutto questo, non dobbiamo dimenticare come e perché Balducci è morto: in itinere.

A me è toccato, nei mesi seguenti la sua fine terrena, l’onore (e lo strazio) di andare a concludere alcuni dei cicli di conferenze che egli aveva iniziato, in tanti centri apparentemente piccoli ma per lui egualmente importanti. E la cosa che più mi ha colpito, nei racconti di chi gli si era stretto accanto in quei luoghi è stata la "pastoralità" dei suoi viaggi. Ovunque si recasse c’era molta gente ad ascoltarlo, venuta anche da lontano, ma c’erano anche creature doloranti che attendevano da lui una parola o un gesto che restituisse loro una ragione di vita: vecchie signore che si sentivano inutili, emarginate e che egli portava a casa con la sua auto, ridando loro autostima e un po’ di prestigio sociale, donne e uomini smarriti in qualche pena psichica, cui egli affidava piccole mansioni che li facevano sentire suoi collaboratori; atei conclamati e detestati per la loro irruenza cui Balducci mostrava le braccia spalancate del crocefisso; e questi episodi di tenerezza erano andati crescendo negli ultimi anni, cosicché in molti è rimasta l’immagine di un Balducci non solo intellettualmente grande ma anche, e soprattutto, buono, amabile.

La seconda caratteristica dell’incontro di Balducci con i tanti gruppi al cui servizio egli pose il suo cuore e fa sua intelligenza fu il profondo rispetto che egli portò loro. Esistono molte trascrizioni dei suoi discorsi fatti in varie sedi, anche in giorni successivi; ed è quasi incredibile vedere come ciascuno ai essi sia diverso dagli altri se non nell’impianto almeno in molte significative notazioni. Egli avrebbe potuto calare dall’alto la propria cultura e la propria riflessione in un discorso ormai collaudato; invece ogni occasione fu preparata, costantemente arricchita dall’attualità, da quel dipanarsi della storia nella cronaca di cui Ernesto sapeva cogliere le implicazioni con mirabile prontezza. Ai suoi ascoltatori non elargiva mai della retorica né la accettava da loro. Il suo dire era solenne, fluiva in un discorso che sembrava scritto (mentre egli non aveva davanti a sé neppure una scaletta), ma all’infuori di questa eleganza egli non concedeva sconti, per così dire. Citava autori come Freud e Jung, Habermas, Levinas e Levi Strauss, e non sempre usava parole facilissime; senza compiacimenti intellettuali, sapeva di avere una funzione magisteriale e chiedeva di fatto ai suoi ascoltatori di ampliare le proprie conoscenze.

Nei dibattiti era paziente ma non celava la sua insofferenza per le spiritualità evanescenti tipo new age, né per i settarismi o per i movimenti esclusivi, ancorché graditi in Vaticano, dei quali detestava l’arroccamento isolazionista o la furia proselitistica. Non accettava volentieri di discutere di riforme della Chiesa, che non gli parevano di grande sostanza: Preferiva parlare con passione di una Chiesa-comunità che doveva accettare il rischio di mutare profondissimamente secondo le sfide del futuro, ma respingeva l’idea che con la Chiesa-istituzione si potesse rompere. Le tensioni potevano e dovevano essere portate, diceva, sino al limite di rottura, e quel limite doveva essere coraggiosamente indagato, ma non doveva essere varcato perché la carità doveva prevalere.

Un giorno del 1990, in un convegno, a Rimini, della Rete Radiè Resch, un’associazione di solidarietà internazionale, Ernesto rivelò una delle ragioni che lo portavano a raggiungere cosi frequentemente certi gruppi. Disse: "Ho bisogno di queste prefigurazioni di quella cittadinanza planetaria, senza la quale io cadrei per la vertigine, per la perdita totale del mio vivere quotidiano e del mio vivere storico".

L’uomo al quale non era mancata la possibilità di raggiungere le grandi folle virtuali dei mass-media, sentiva il bisogno di incontrare di persona, occhi negli occhi e mano nella mano quelle che Helder Camara chiamava "comunità abramitiche". Balducci seppe dunque accettare ciò che risulta difficile a molti, e specialmente a molti intellettuali: il dare e il ricevere come eguale espressione di amore.

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