Prometeo oggi
AA. VV., “Il volto della Gorgone”. Introduzione di Umberto Curi. Mondadori, Milano, 2001, pp. 325, 14.46.
Il volto della Gorgone ha una dotta e stimolante introduzione di Umberto Curi, che sollecita qualche riflessione.
Secondo il mito, Zeus, appena assurto al trono degli dèi, disprezzò il genere umano, che avrebbe voluto distruggere sostituendolo con una nuova razza. Solo Prometeo, stirpe divina, osò ribellarsi e per evitare agli uomini lo sterminio portò loro il dono del fuoco. Insegnò inoltre a lavorare la terra, a raccogliere i prodotti, ad avere la meglio sulle fiere, a domare le bestie selvatiche, a costruire case, a solcare i mari e a inventare ogni espediente utile alla sopravvivenza. Certo fu questa la spiegazione che gli uomini si dettero quando ebbero la consapevolezza della loro condizione rispetto a quella degli altri animali, che non costruivano attrezzi e vivevano ‘naturalmente’.
Nello stesso tempo gli uomini si accorsero che vi era un limite invalicabile qualunque cosa facessero: la morte, di cui erano consapevoli a differenza degli altri animali. Reso "pantoporos" (in grado di trovare ogni soluzione) dal possesso della techne, a lui regalata dal gesto sacrilego di Prometeo, a nulla serve all’uomo la capacità di escogitare strumenti e artifici di fronte all’ineluttabile morte. Irrimediabilmente "aporos" resta l’uomo in presenza dell’Ade (Curi, pag. 9), perché la vista della Gorgone lo paralizza.
A questo punto il mito ha bisogno di un completamento. Oltre alla techne, un altro dono prezioso avrebbe fatto Prometeo agli uomini: distogliere i loro occhi dalla morte, indurli a volgere altrove lo sguardo, dimenticando l’inevitabile fine. Gli uomini riescono a sopravvivere effimeri giorni sulla terra perché diventano ciechi, obliando il loro costitutivo essere per la morte. L’oblio evita il paralizzante impietramento che seguirebbe all’agghiacciante vista della Gorgone. E qui Eschilo, che racconta il mito, ha un verso che ha fatto molto discutere. Rispondendo alla domanda del coro su quale fosse il rimedio per allontanare dalla morte gli occhi degli uomini, Prometeo dice: "Ho posto in loro cieche speranze".
Perché cieche? Molto ci si è interrogati sul significato di queste parole: speranze di sopravvivere? Cieche perché infondate? A me pare che il verso di Eschilo abbia avuto un preciso senso fino a quando la techne è rimasta rudimentale, primitiva, all’interno del ciclo naturale che non riusciva a modificare. A ragione Eschilo afferma che "la tecnica è di gran lunga più debole della necessità" (natura); la tecnica antica infatti non era inquietante, era incapace di oltrepassare l’ordine della natura.
Ora non è più così. Lo sviluppo della scienza e della tecnica è stato prodigioso: dalla ricostruzione del genoma alla clonazione, dai miracoli dell’ingegneria genetica e della medicina al trapianto di organi, dalla esplorazione del sistema solare e dello spazio interstellare allo sbarco sulla luna, dal dominio sull’atomo a infiniti altri esempi. Questa mirabile accelerazione dimostra che la techne ha superato il concetto di limite ed è divenuta più forte della necessità. Anche le malattie, l’invecchiamento e la morte sono contrastate e combattute nei laboratori di tutto il mondo. La tecnica ha compiuto un salto qualitativo nel momento in cui è diventata un fare manipolativo senza limiti della natura e della specie umana, e quindi anche della storia. Il salto di qualità rivela la natura "divina" della scienza e della tecnica, che da primitive stanno diventando onnipotenti. Oggi con la tecnica gli uomini possono ottenere da soli quello che un tempo chiedevano agli dèi, compresa la speranza di vincere l’invecchiamento e la morte, da cui non hanno più bisogno di distogliere gli occhi, ma che anzi guardano con atteggiamento di sfida.
Ecco perché la tecnica moderna è "deinà" (tremenda) a differenza di quella antica, del tempo di Prometeo. Stupisce l’intuizione preveggente di Eschilo nel "Prometeo incatenato": "L’uomo scoprirà una fiamma più potente del fulmine, un rimbombo superiore al tuono" (versi 757-762).
E’ la profezia del fuoco atomico, di Hiroshima e Nagasaki. Poco prima aveva scritto: "L’uomo un giorno avrà un potere per nulla inferiore a quello di Zeus" (versi 509-510).
Se le cose stanno così, ufficio della filosofia non è quello di "imparare a morire" (Curi, pag. 61), ma di insegnarci a vivere la nuova tremenda avventura che ci aspetta in un futuro che è già incominciato.