Buio americano
Con Trump sta tutto cambiando. Come mai? Con quali esiti? Intervista all’americanista Mario Del Pero
Mario Del Pero, professore di Storia internazionale e Storia degli Stati Uniti a Sciences Po (Parigi), è uno degli “americanisti” attualmente più accreditati. E’ editorialista su vari giornali e autore di diversi libri, l’ultimo dei quali fin dal titolo “Buio americano. Gli Stati Uniti e il mondo nell'era Trump” propone un argomento non propriamente tranquillizzante. Del Pero è anche di Cavalese e conosce molto bene Questotrentino, non è stato quindi difficile concordare con lui l’intervista.
Nel corso della mia esperienza negli anni ’60 di un anno di studio in America, mi è sembrato che nella popolazione vi fosse, profonda, la convinzione della necessità della democrazia, vissuta come elemento fondante dell’identità americana. “We are a democracy” era l’orgogliosa premessa di ogni discorso. Adesso sembra invece che la democrazia possa essere attaccata impunemente. E’ così?

Anch'io ho fatto un anno di liceo negli Stati Uniti nel’87 a Gary, Indiana, grande centro siderurgico. Lì c’era ancora la scuola per i bianchi e quella per i neri. Da allora i progressi sono stati significativi a tutti i livelli, la democrazia sostanziale si è estesa, è diventata multirazziale o ha cercato di farsi tale. A metà degli anni ’50 il 95% degli americani si dichiarava contrario ai matrimoni interrazziali, mentre oggi quella percentuale si è rovesciata. Sicuramente i progressi ci sono stati.
Poi il compito di una democrazia è quello di aggiornarsi continuamente, perché il perimetro dei diritti che deve proteggere si ridefinisce. La democrazia è per definizione incompleta e imperfetta, ma è anche un processo, la maggior parte dei manuali di storia aamericani usano sempre l’aggettivo “unfinished”: gli USA sono “the unfinished nation”, perché non finita e incompleta è l’essenza del progetto democratico.

Però le democrazie possono regredire e non solo progredire. E ce lo mostra la storia della democrazia americana, che ha avuto anche regressioni autoritarie, illiberali, spesso coincidenti con momenti di guerra, quando le esigenze, presunte o reali, della sicurezza nazionale legittimavano la restrizione delle libertà: durante la prima guerra mondiale il candidato socialista alle presidenziali Eugene Debs, che aveva preso milioni di voti, si fa due anni di carcere perché pacifista ed anti-interventista; e poi la vergognosa vicenda dei giapponesi americani durante la seconda guerra mondiale, quella di tanti intellettuali ai tempi del maccartismo durante la guerra fredda, oppure la notte della ragione che seguì l’11 settembre (Guantanamo, Abu Ghraib, la Rendition, la tortura, lo spionaggio interno, il Patriot Act). Insomma, la democrazia è un processo, ma non sempre una progressione. E in questo momento penso che ci sia una regressione, uno slittamento autoritario. Nei miei interventi pubblici, nel mio libro e nei miei editoriali ne sottolineo gli aspetti. L’eliminazione di tutti gli organi che hanno la funzione di controllare gli abusi dei poteri, soprattutto dell’esecutivo, l’alterazione dei rapporti tra i poteri, l’uso e l’abuso degli ordini esecutivi e dei decreti presidenziali. E soprattutto la sostanza di questi ordini esecutivi: con un colpo di penna si pretende di modificare la Costituzione o di abrogare il quattordicesimo emendamento, quello sul diritto di cittadinanza per nascita sul territorio, che ha dentro il trittico di emendamenti post guerra civile: fine della schiavitù, cittadinanza e diritto di voto, da cui era sorta una società più pluralistica e multirazziale. Poi tante altre cose come la sospensione dell’Habeas corpus: ci sono arresti arbitrari, studenti che si sono fatti due mesi in un carcere per le loro opinioni senza capi di imputazione formali, il trasferimento di centinaia di immigrati in un carcere gulag a El Salvador, alcuni dei quali per riconosciuto errore amministrativo… Io credo che una deriva autoritaria sia effettivamente in atto.
Quale può essere l’esito? Ed esistono gli anticorpi?
L’esito non è scontato, di sicuro vediamo che gli anticorpi sono fragili. La dimostrazione è che se arriva un presidente come Trump la Costituzione - che è vecchia, troppo essenziale, anacronistica - può abbastanza poco.

Ci sono aspetti forse ancora più pericolosi, per esempio cercare di utilizzare l’esercito in una guerra civile interna. Come quando sono stati adunati i generali per chiarire loro che oggi il nemico è interno.
Io sono un po' riluttante a utilizzare la categoria della guerra civile, in una nazione che ha visto nella sua guerra civile dell’800 un numero di vittime uguale a quello di tutte le altre guerre. Ad ogni modo l’argomento illustra tre cose. Numero uno: si sfrutta per scopi politici un tema trasversalmente popolare: il tema legge e ordine, lotta alla microcriminalità urbana, che è quella più percepita dai cittadini. Con questo catturi il consenso. Secondo aspetto: dentro una generale delegittimazione delle istituzioni e un crollo della fiducia verso tutte le istituzioni, soprattutto quelle politiche (il Congresso oggi ha un tasso di popolarità sotto il 10%) ce ne sono altre che invece rimangono credibili: gli apparati di sicurezza, la polizia, le forze armate, e Trump le utilizza per sfruttare la loro credibilità. Terzo aspetto: si usa tutto ciò per colpire forse il più importante e per il momento più efficace dei contropoteri a questo disegno autoritario: il federalismo americano, l’autonomia degli stati e delle città. Ci sono tante dialettiche che hanno mosso la storia degli Usa, tra esse quella tra poteri statali e potere federale è centrale; poteri che hanno la stessa fonte di legittimità, in quanto entrambi si rivolgono allo stesso elettorato. Lì c’è un braccio di ferro istituzionale e politico, anche perché la Costituzione americana è troppo scheletrica e lascia tanti spazi non definiti.

Ma è facile per Trump portare l’esercito dalla propria parte?
Ho insegnato vari anni in università americane e ho avuto anche studenti militari, gente tendenzialmente molto in gamba, che rispetto all’americano medio fa esperienze di vita precoci e profonde. Quelli più formati hanno solide sensibilità costituzionali e democratiche, ma tra la bassa forza Trump è molto popolare: il messaggio duro, legge e ordine, forza domestica, forza internazionale, decisamente piace. Il profilo sociologico degli assalitori del 6 gennaio a Capitol Hill ci mostra come le forze armate risultino sovra-rappresentate, c’erano tanti ex militari, veterani… E anche oggi tra i veterani - sondaggi alla mano - Trump stravince di venti o trenta punti percentuali.
Il tema della criminalità urbana è reale o gonfiato?
Le città americane sono oggi infinitamente più sicure rispetto agli anni ’80 o ’90. Il tasso di reati violenti a Los Angeles è la metà rispetto agli anni ’80, a Washington il tasso di omicidi è un quarto di quello degli anni ’90. Detto questo, ci sono due però. Tra il 2015 e il 2023 la curva della criminalità urbana è tornata a salire, pur rimanendo lontanissima dagli anni ’90. Secondo punto: il Covid. Ha devastato i downtown di molte città perché sono stati chiusi gli uffici e a ruota tutte le attività che gli giravano attorno. C’è un chiaro segnale di degrado urbano e allora Trump ha cavalcato anche quello, inserendovi il suo messaggio di legge, ordine, pulizia.

Dove però Trump sembra più forte sono le aree rurali e le cittadine del Mid West.
È cosi. Secondo me ci sono tre linee di frattura elettorali che creano due blocchi lontani. Il primo è quello di genere: ci sono venti, venticinque punti di scarto tra il voto delle donne e quello degli uomini. Le donne votano democratico, gli uomini repubblicano. Forse neanche Obama nel 2008 sarebbe stato eletto senza il voto delle donne. E questa linea di frattura si amplia con il calare delle età: nell’ultimo ciclo elettorale il gap è stato più marcato tra i giovani, le donne votano democratico e un numero crescente di giovani uomini vota repubblicano. Seconda linea di frattura è il livello di istruzione: chi ha un college degree o un master o un dottorato vota maggioritariamente democratico e chi non ce l’ha vota repubblicano. Non voglio poi qui fare discorsi su istruzione e consapevolezza politica, io ho amici di Cavalese con la terza media che sono più consapevoli politicamente dei miei colleghi di Sciences Po. Il terzo discrimine è quello che dicevi tu, la densità abitativa: nelle grandi città, nelle grandi aree metropolitane larghe maggioranze sono democratiche e lo sono sempre di più, noi diremmo nelle ZTL, anche se sono paragoni impropri. Nelle prime cinquanta città americane quasi tutti i sindaci sono indipendenti o democratici anti Trump, mentre dove la densità abitativa è minore, cambia tutto.
Come spieghiamo questo?
Fondamentali sono stati gli effetti della globalizzazione, con la trasformazione degli USA in una società di servizi avanzati come finanza, nuove tecnologie e tutto quel che vi ruota attorno: sono andate a concentrarsi in grandi aree metropolitane. Nel 2020 Biden è stato il presidente eletto che ha vinto il minor numero di contee, meno di 500 su più di 3000; vinceva nelle contee con grandi agglomerati metropolitani, ma perdeva nettamente nelle altre. In quanto a reddito e crescita economica, l’80 % della crescita del decennio precedente l’avevano prodotto le contee dove vinceva Biden. Alcuni studiosi la chiamano una “dynamism divide” - divisione del dinamismo: da una parte località che languono, dall’altra città come Charlotte in North Carolina che in vent’anni è passata da meno di un milione di abitanti a tre milioni. Questa è una linea di frattura profondissima nell’America di oggi.
In Italia c’è stato un significativo arretramento delle condizioni della classe lavoratrice. Negli Usa la situazione è leggermente migliore, tuttavia tutto è aggravato dalla mancanza del Welfare. Di tutto questo sono ritenute responsabili le élite, di cui i democratici vengono visti come la massima rappresentanza. Sbaglio in questa analisi?
In parte credo di sì. Provo a spiegarmi. Ad esempio, è una leggenda che nel 2016 Trump sia stato spinto alla vittoria dalla working class e anche dalla classe operaia bianca. Se tu guardi il voto del 2016 (prima vittoria di Trump) e lo compari col voto del 2008 (vittoria di Obama), Trump prese centinaia di migliaia di voti in meno tra gli operai del Mid West bianchi. Secondo aspetto, se noi disaggreghiamo il voto a Trump in base al reddito, vediamo che Trump non vince tra i redditi bassi e bassissimi dove sono sovrarappresentate le minoranze afroamericana e ispanica, vince invece tra i redditi super alti e tra il ceto medio impoverito, in larga parte bianco. Il fatto è che c’è stato un impoverimento di questa middle class bianca, più colpita dalle politiche pubbliche in quanto non è povera a sufficienza per avere accesso ai meccanismi di Welfare (food stamps per gli alimentari, l’assistenza Medicare di Obama), né può accedere, in quanto bianca, ai meccanismi delle quote riservate alle minoranze per accesso a università e posti pubblici. È questa classe media bianca ad essere diventata la spina dorsale del trumpismo.
Insomma, una situazione di grave squilibrio sociale.
È stato attenuato con la possibilità di effettuare consumi a debito. La storia americana dagli anni ’70 fino alla grande crisi del 2008 è caratterizzata da consumi crescenti a debito, finanza deregolamentata, mutui al 130% sul valore delle case. Guardando le curve delle disuguaglianze, quella che rimane più stabile è la curva dei consumi: tutti gli americani consumano. Sono crollati i risparmi delle famiglie, ma i consumi sono rimasti, con la crescita dell’indebitamento, pubblico e privato, anche verso l’estero. Questa finanza “allegra” è poi esplosa nel 2008. Trump continua invece a menzionare il pre 2008 come un modello di benessere collettivo da perseguire, è una delle sue promesse più popolari. Da storico invece sostengo che viviamo ancora sotto il cono d’ombra della crisi del 2008, che ha completamente delegittimato la globalizzazione e alimentato rabbia e paure. Ed ecco arrivare Trump.
Questa dinamica è insensibile alla realtà dei fatti? Le promesse di Trump non saranno mantenibili, quindi quanto può andare avanti?
Trump farà deficit, lo sta già facendo, e cercherà di scaricare su terzi i costi delle sue politiche (ad esempio sull’Europa, sugli alleati). Sta facendo pressioni affinché il resto del mondo si accolli parte del debito americano. La Cina è stata la principale accumulatrice di titoli del tesoro statunitense, ma da sei o sette anni ha cominciato a liquidarli, pur stando attenta a non creare crisi finanziarie globali.
A livello internazionale c’è una opposizione che incomincia a strutturarsi per resistere?
Vediamo: l’Europa, grande potenza commerciale, è capitolata in fretta.
Però il resto del mondo incomincia ad essere antiamericano per principio…
Sì, pero ricordiamoci che viviamo in un sistema internazionale americanocentrico, in cui il dollaro continua ad essere la valuta utilizzata nelle riserve delle banche centrali, nel determinare i prezzi delle materie prime e in tante transazioni commerciali. Anch’io credo che le cose stiano cambiando, ma sarà un lungo processo.
Trump ha minato la credibilità dell’America con la sua aggressività verso gli alleati e i continui cambi di rotta su varie questioni. Così facendo non finisce con il rendere possibile l’ascesa di aggregazioni internazionali alternative, come i BRICS?
Sì, può darsi. Tuttavia gli Usa hanno leve di pressione e le stanno utilizzando. Stanno ad esempio promuovendo un’operazione esplicita per rovesciare il governo del Venezuela. Penso che tutte queste azioni si riveleranno un boomerang per l’America, ma sul lungo periodo, non sul breve. Per esempio, in tutta la partita dei dazi c’è stata una corsa ad accodarsi. Parlando anche con diplomatici francesi e italiani ho riscontrato il prevalere della linea per cui ci sarà un dopo Trump, e in questo momento l’unico obiettivo è contenere il danno. Comunque le cose stanno cambiando: ad esempio, fino a cinque anni fa il 70 % delle riserve dei vari stati in valute, erano dollari. Oggi siamo al 55%.
Sul piano interno?
Indicare nemici semplici, fare politiche razzialmente orientate e discriminatorie, è una linea chiara, in uno slogan: sfruttare il malessere dei penultimi e mobilitarli contro gli ultimi. Dopodiché Trump è un presidente impopolare, l’America nel suo complesso non è trumpiana, tutt’altro. Secondo l’Istituto Gallup, che dagli anni’30 misura il consenso all’operato del presidente, la popolarità di Trump non va mai sopra il 45% , ma non va nemmeno mai sotto il 36-38%: un 40% degli americani sta sempre con lui. Dunque per sconfiggerlo bisogna portare elettori alle urne, cosa che i democratici nel 2024 non hanno saputo fare.
Quanto può pesare, quanto è credibile la parte di popolazione che ancora ritiene che la democrazia sia un valore e ha indetto le recenti grandi manifestazioni con lo slogan ‘No kings’, ’Niente re’.
Sono state impressionanti, milioni e milioni di persone in quasi 3000 città e cittadine. Questo attivismo è fondamentale, però è mobilitazione civica pre-politica e dunque necessita di essere trasformata in politica. Per usare uno slogan abusato in Italia: “Dalle piazze piene alle urne piene”. Ci saranno a breve elezioni importanti, per i governatori di New Jersey e Virginia, e il voto di midterm. I democratici credo abbiano chances di riconquistare il Senato e anche la Camera.
Tutto questo si scontra con l’afasia del partito democratico. Non è che i dem siano spariti perché dovrebbero rivedere sé stessi nel profondo? Ad esempio della dinamica folle del continuo indebitamento i democratici, a iniziare da Clinton, sono stati pienamente corresponsabili.
Credo proprio di sì. Il fatto è che durante gli anni ’90 c’era anche la grande illusione che la new economy avrebbe generato ricchezza condivisa. Clinton ha fatto i suoi errori, ma è una figura complessa: ha sì deregolamentato le banche (e prima di lui lo aveva fatto Carter), ma ha aumentato le tasse sui redditi più alti. Per semplificare: se la crisi finanziaria del 2008 è un prodotto degli eccessi neoliberali, le amministrazioni democratiche hanno le loro responsabilità. Dopo il 2008 le cose cambiano un po'. Ad esempio, Obama avrebbe potuto agire con più fermezza con il settore bancario, e invece prevalse la logica che il settore andava messo in sicurezza immediatamente per evitare un crollo globale; però da quella crisi i responsabili, ossia i grandi manager delle banche, sono usciti con super bonus eticamente inaccettabili. Dall’altra parte potremmo parlare degli stimoli all’economia di Clinton, della riforma sanitaria e del salario minimo di Obama, del rilancio della sanità e dei provvedimenti per il clima di Biden. Insomma, cose di sinistra, diremmo noi, ne hanno fatte. Ma dopo il 2008 io penso che i buoi fossero già scappati dalla stalla: il malessere, la rabbia, la delegittimazione della politica e delle istituzioni rappresentative era ormai in corso.
Poi i dem hanno gravemente peccato nell’insufficiente rinnovamento. Nel 2016 con quel clima politico, vai a candidare Hilary Clinton… Dai l’impressione di avere altri obiettivi che non i problemi della gente. Inoltre c’è stata una eccessiva enfasi sui temi culturali e identitari. Al di là delle polemiche pretestuose sul “woke”, non puoi in campagna elettorale parlare più della questione degli atleti transgender (uomini che hanno fatto la transizione a donne) che della sanità pubblica. Gli atleti transgender nel sistema sportivo universitario americano sono meno di dieci su un totale di mezzo milione, nessuno di alto livello, e tu incentri su quello la tua propaganda?
Però ora il problema dei dem è che sembrano non voler combattere in una situazione drammatica.
È difficile combattere con Trump. Il governatore della California Gavin Newsom, quello dell’Illinois Jay Pritzker, il vecchio Sanders, la Ocasio Cortez, l’ex segretario del lavoro di Biden, Pete Buttigieg sono tutti attivi e anche in maniera relativamente incisiva. Tuttavia nelle presidenziali c’è bisogno di un momento in cui metti i tuoi candidati sotto i riflettori. Pensa ad Obama cosa sarebbe stato senza il ciclo delle primarie del 2008 e lo scontro con la Clinton. Quindi è fondamentale far maturare un ceto politico nuovo, fondamentale che l’indignazione civica si traduca in attivismo politico - e non è scontato, come sappiamo benissimo anche da noi in Italia.
Non è che magari, come in Italia nel Pd, e a maggior ragione in America, pesa l’identificazione, tutt’altro che peregrina, della struttura dei democratici con le élites?
In parte è vero. Non però per le élites economiche: i redditi alti e altissimi votano metà repubblicano e metà democratico. Fa sorridere come Zuckerberg e Bezos facevano corsi nelle loro aziende di inclusione e appena è arrivato Trump hanno chiuso tutto. Il tipo ideale dell’elettore democratico, togliendo le minoranze che al 90 % continuano a votare democratico, è una persona che vive in una grande area metropolitana, ha un livello di istruzione alto o medio alto e un buon reddito. Come il tipo ideale dell’elettore trumpiano è maschio bianco e giovane con un livello di istruzione basso o medio-basso. Si aprirebbe una grande discussione su che tipo di messaggio dare agli elettori. In parole fin troppo semplici, un messaggio più populista devi saperlo offrire, ma il punto fondamentale è riportare la discussione su temi sociali ed economici. Vanno bene le questioni culturali, ma non puoi farle diventare egemoniche nella tua retorica, altrimenti finisci in una campagna elettorale in cui si parla di dieci atleti transgender e non di milioni di persone che perdono la sanità.