Quando c’era il PCI...
I patrimoni dei partiti rimandano, per privilegi e opacità, alla manomorta ecclesiastica di feudale memoria. Oltre ai finanziamenti in denaro dalla dubbia destinazione, sono da quantificare i patrimoni immobiliari gestiti in maniera oscura dai partiti e dalle fondazioni. Nella mia cittadina, negli anni sessanta, la sede del PCI venne acquistata con tanti sacrifici, attraverso una sottoscrizione, da iscritti e simpatizzanti. Erano tempi di passioni e di speranze. Si credeva allora nella politica e nel futuro di progresso e di giustizia sociale che prometteva. Gli iscritti erano soprattutto operai, artigiani e contadini. Eppure ci fu chi si privò fino alla metà dello stipendio per dare una casa al partito. Oggi quella sede, passata prima al PDS, poi al PD, quasi sempre chiusa, è in condizioni pietose. La facciata, che per altro guarda sull’elegante corso della città, è tutta scrostata, l’intonaco è da tempo caduto e la casa del partito appare una catapecchia abbandonata sulla cui bacheca chiunque affigge quello che vuole. Ma la cosa più strana e incredibile è che i dirigenti attuali, che pure vorrebbero intervenire, non possono. La proprietà dell’immobile non è della sezione, di coloro che la comprarono, dei compagni, come si chiamavano una volta. Proprietaria è una fondazione, di cui nessuno ricorda il nome. È proprietaria di un numero indeterminato di sezioni, sembra in tutto il territorio nazionale. Come gestisce le proprietà lo testimonia il fatto che, sollecitata infinite volte, nemmeno risponde, e la casa, una volta del PCI, pagata dagli operai, va in rovina. Sarebbe auspicabile che qualche giornalista si interessasse della storia di questa strana Fondazione.