“Gomorra”, “Il divo”
Il film impressionista di Matteo Garrone, un quadro naturalistico sull'ordinario degrado del male. E quello barocco di Paolo Sorrentino, in virtuosistico equilibrio tra invettiva e commedia, sulle torbide dinamiche del potere italiano.
Gomorra. Seguiamo uomini, ragazzi, bambini per le strade e i cementi di Scampia. Piccole vicende in cui non si riesce a trovare un ordine. Dopo aver dedicato attenzione ai volti e ai gesti, dopo aver guardato da vicino protagonisti e cose, all’improvviso la macchina da presa ci regala un campo totale. Vediamo le Vele dall’alto. I tetti, ripresi con la macchina da presa leggermente inclinata verso il basso. Il respiro liberatorio che segue, di solito, le inquadrature a campo lungo dopo che un film ci ha rinchiuso in interni o in esterni senza profondità stavolta ci si strozza in gola. Sul tetto di Scampia vediamo dei bambini che fanno il bagno in una piscina gonfiabile colorata, dei costumi anch’essi vivaci. Intorno, però, c’è solo un grigio angosciante, tenebroso.
Matteo Garrone non intende illustrare il romanzo di Roberto Saviano. Non vuole presentare a schermo la documentazione accumulata dallo scrittore, seguire gli sviluppi delle sue illuminanti e coraggiose spiegazioni. Garrone non spiega: mostra. Intreccia storie. Riprende luoghi, facce. Non ci presenta didascalie su quelli che sono i clan rivali, su chi siano gli scissionisti o dove si schieri questo o quest’altro personaggio. La potenza del film è nella capacità di andare in quei posti riuscendo a far entrare anche lo spettatore in un gorgo, un vortice spaesante. La pellicola si mette accanto al libro non per ribadirne i contenuti ma per dire, partendo da esso, delle cose altre, con un altro linguaggio. "Gomorra" è un film impressionista, dove l’unico colore vivo che rimane è però quello del sangue. Garrone vuole arricchirci di impressioni, colpendoci con immagini cercate con cura nei posti in cui bisognava andarle a cercare: discariche, distributori abbandonati, interni di case e di fabbriche. E poi condomini che sembrano progettati apposta per rendere dolorosamente ossessivo un controllo sociale da usare esclusivamente a fin di male.
Il divo. La vita di Giulio Andreotti, definita "spettacolare" nel sottotitolo del film. Le dinamiche del potere italiano non vengono nascoste, come potrebbe forse sembrare a prima vista, dietro una patina di grottesco e di ridicolo. Esse vengono invece messe a nudo da una narrazione e da uno stile. La regia è barocca perché barocco è il modo con cui la DC ha governato l’Italia per quarant’anni, coltivando relazioni torbide, spartendosi il potere come se fosse una cosa privata, navigando in mezzo a stragi e assassini.
Paolo Sorrentino era l’uomo giusto per raccontare questa biografia. Riesce a camminare sulla lama sottile che separa un discorso serio, l’invettiva, dalla presa in giro, la commedia. Lo fa con un virtuosismo di regia che non vuole solo mostrare la bravura dell’autore: dietro alle sue scelte formali si percepisce un rabbia che dà forza al racconto, un ghigno distorto perfettamente adatto ai contenuti. Elenchiamo qui sotto alcuni dettagli di regia che ci sembrano straordinari.
1) Movimenti di macchina. Quando il film ci mostra il cadavere di Calvi impiccato, Sorrentino fa scendere la macchina da presa dal Ponte dei Frati Neri come se si tuffasse di testa. Quindi vediamo Calvi impiccato all’ingiù, con i piedi rivolti verso l’alto. Splendida scelta per mostrare quanta verità, nella storia d’Italia, sia stata capovolta.
2) Sceneggiatura. Una donna chiede udienza ad Andreotti. Entra in casa. Per parlargli c’è la fila. Intorno si scatena un party selvaggio, condotto sui ritmi di percussioni: un gruppo di musicisti sta suonando in soggiorno. E’ quanto di più lontano dalla realtà della vita di Andreotti. Eppure dà un’idea, quella dell’orgia del potere in corso. Un’orgia ridanciana, diversissima dalla seriosa austerità di altre udienze, ad esempio quelle concesse da Marlon Brando nel "Padrino".
3) Sound design. La visita di Cirino Pomicino al quartier generale di Andreotti è mostrata al ralenti. Si sente, sotto, un suono grave, contrabbassi ed elettronica. Poi, a tratti, dei fischi. Bastano questi effetti sonori a caratterizzare in modo perfetto il personaggio.
4) Regia. La scena del presunto bacio fra Andreotti e Riina viene raccontata facendo partire, quando i due si alzano per abbracciarsi, una musica tra lo struggente e il kitsch, come a prendere le distanze rispetto alle parole del pentito che riferiscono dell’incontro. Sorrentino ha ribadito nelle interviste di aver voluto fortemente girare questa scena contestabile. Il modo con cui l’ha fatto, questa lucida lontananza, autorizza la sequenza. Sorrentino non vuole inchiodare Andreotti a responsabilità vere o presunte, ma conferire, ancora una volta, profondità al personaggio che il film costruisce.
5) Sceneggiatura. Dopo il bacio, l’autista riaccompagna Riina a curare i pomodori del suo orto. Il dettaglio che stupisce e lascia ammirati è il tesserino sull’auto di Riina con l’autorizzazione per i portatori di handicap.
6) Scenografia. Andreotti ospite al Cremlino. Un carrello verticale ci mostra una pelle d’orso per terra, Andreotti che legge un giallo Mondadori nel letto, un ritratto di Karl Marx sopra di lui.
7) Dialoghi. La moglie ad Andreotti: "Tu hai la battuta pronta, erudizione, perseveranza, concentrazione... e esistenza".