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QT n. 12, 16 giugno 2007 Monitor

“Zodiac”

Da David Fincher un altro appassionante ed amaro film su un serial killer: ma soprattutto sulla sconfitta delle investigazioni, cioè sull'estrema difficoltà di interpretare la realtà. In una metropoli che tutto nasconde ed omologa.

Il regista di "Seven", David Fincher, racconta in "Zodiac" un’altra storia di omicidi e indagini. Si ha ancora a che fare con un serial killer, una persona che uccide senza movente, senza motivazioni. Il film descrive una catena di omicidi. Lo fa per piccoli cenni, senza esplicitare troppo. In reazione agli omicidi, si mettono in moto due tipi di attività investigativa: quella della polizia e quella della redazione di un giornale. Sia la polizia che i giornalisti hanno a che fare con le sfide enigmistiche e le vanterie di un assassino seriale che si fa chiamare Zodiac e che conduce un gioco con gli inquirenti, vantandosi delle sue imprese, fornendo indizi... I percorsi di investigazione, della polizia e dei giornali, si rivelano difficili, frustrati dall’abilità di Zodiac nello sviare le tracce.

Ma "Zodiac" non è un semplice thriller poliziesco. Il film, infatti, si arrende del tutto e adatta la sua narrazione a un’evidenza: la realtà è difficile da interpretare. Il caso rimane infatti insoluto. Gli infiniti fili della trama d’indagine si rivelano troppo complessi per essere sbrogliati. Il poliziesco, che vive generalmente nel percorso delitto -> inchiesta -> soluzione, viene così a mancare della sua funzione di base: quella di risolvere un caso.

E’ questo il fattore che impone al film di essere tanto dilatato. Come film thriller concepito all’interno delle strutture di Hollywood, la pellicola è infatti eccessiva. La sua durata (158 minuti) è rivelatrice della tensione cui sono stati sottoposti i tempi narrativi. Le indagini coprono più di vent’anni di arco temporale. I protagonisti invecchiano, insistono, cedono, cambiano mestiere... Questa dilatazione suggerisce che ciò che muove l’assassinio seriale ma anche, in contrapposizione, gli investigatori, è solo vanità, intesa nel duplice significato di "cosa vana" e "cosa da vanitosi". La vanità del serial killer si specchia in quella di chi si incarica di arrestarlo. Non rimane molto da raccontare per dimostrare l’utilità delle singole esistenze. C’è chi spreca vite (compresa la propria) uccidendo la gente e chi la spreca cercando vanamente di arrivare al nome dell’assassino, a un volto, a una verità. Nel film vediamo passare gli anni, ma i protagonisti rimangono intrappolati in un’eterna ricerca di soluzioni, di motivazioni, di senso.

E’ questo il fascino, suggerisce Fincher, delle storie di nera. Catturano chi se ne occupa e chi ne ascolta il resoconto in trame forti che si fa fatica a governare razionalmente. E nel frattempo, come in tutti i casi di nera sviscerati fino all’estenuazione, ci si dimentica delle vittime, sempre meno oggetto di una tragedia, sempre più meccanismi di un rompicapo. La pietà tragica nei loro confronti sembra aver diritto a poco o nessuno spazio.

La pellicola è ambientata in gran parte tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta, periodo storico di cui fotografia e costumi ricostruiscono l’atmosfera in maniera perfetta. Parte della forza del film è dovuta alle splendide location: San Francisco, i dintorni, la baia. Il film ci mostra spesso la città dall’alto, il porto, l’asfalto, il ponte. Questo modo di scandagliare la città rende subito l’idea di quanto poco concreta sia una reale possibilità di controllo. Di quanto siano lontane le piccole esistenze individuali, lontane dalla possibilità di dominarle, di descriverle, di capirle.

Una delle sequenze più belle racconta l’assassinio di un tassista. La macchina da presa segue l’automobile con dentro vittima e killer dall’alto, in plongée, con una precisione chirurgica nella sincronizzazione tra il movimento dell’auto e quello della cinepresa. In pochi stacchi ci viene poi mostrato l’omicidio, il sangue. A quel punto alla macchina da presa non rimane che posizionarsi a distanza, vicino a una casa, e allontanarsi con un lento zoom all’indietro. Bellissime scelte di regia. Fincher non è un realizzatore sempre affidabile, ma sa davvero il fatto suo.

Dentro a queste città, dunque, ci si riesce a nascondere, invisibili. Colpevoli e vittime si mescolano, incrociando i loro percorsi, senza una causa, una giustificazione, una motivazione, così come si incrociano i percorsi degli assassini e quelli dei loro cacciatori.

Forse la vera domanda posta dal film è proprio questa: come si fa a sparire nelle metropoli? A commettere omicidi e dileguarsi, a non portarsi dietro la colpa come uno stigma, a comportarsi normalmente, rimanendo killer e innocenti, in mezzo alla gente, ai compagni di lavoro, per le vie, nei negozi di ferramenta?

A una pellicola cinematografica che racconta di un serial killer non resta che rassegnarsi a guardare dall’alto la città, senza riuscire a identificare l’oggetto, la persona attorno a cui ruota tutta la trama, mostrando di arrendersi all’impotenza di fronte a una complessiva mancanza di senso.

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