“Le luci della sera”
Il film di Kaurismaki riprende e rielabora i temi di Chaplin: sulla positività dei perdenti, sull'affetto per i diseredati, sulla felicità che non è promozione sociale.
Con “Le luci della sera”, Aki Kaurismaki realizza un dichiarato omaggio a Charlie Chaplin e allo stesso tempo riprende ed elabora i suoi temi più classici e personali. Il cinema lento e giocoso di Kaurismaki condivide infatti con quello di Chaplin la voglia di riflettere su una questione basilare e inafferrabile: quali sono gli ingredienti necessari alla costruzione della nostra felicità.
Come in un esperimento, il regista finlandese inserisce i suoi personaggi nei contesti meno indicati per rendere concreti i propri desideri e le proprie ambizioni: essi abitano periferie fredde e semi-deserte, si dedicano a lavori sgradevoli, hanno sempre a che fare con forzati e problematici vicinati... In questi spazi, la prima necessità è quella di imparare a convivere con il silenzio e la solitudine. Anche ne “Le luci della sera”, gli eroi di Kaurismaki finiranno per capire che il percorso per realizzarsi non prevede una ribellione al contesto, vistosamente squallido, in cui sono immersi. E che, anzi, gli appigli per raggiungere la felicità si trovano all’interno del proprio milieu, e in nessun altro posto al di fuori di questo.
Koistinen, il protagonista del film, è un beautiful loser. Un perdente, ma un perdente onesto, fedele ai suoi princìpi fino al masochismo. Il principio, in questo caso, è che quando ci si innamora di una donna non la si deve tradire mai. Anche se è la donna sbagliata. Anche se ci si rende conto che quella donna ha fatto tutto per opportunismo e che, sin dall’inizio, si è stati imbrogliati. E’ inutile ribellarsi alla sconfitta che questa donna infligge. E’ come se personificasse il destino: se abbiamo cercato noi stessi la disfatta, vuol dire che ce la meritiamo. Come tanti protagonisti di Kaurismaki, anche Koistinen si siede diligente e composto dalla parte del torto. Brechtianamente, tutti gli altri posti risultavano occupati.
Ma è meglio vincere giocando male o perdere giocando bene? Per Kaurismaki, indubbiamente, l’opzione migliore è la seconda. Di sicuro si ricorda di più l’Olanda a calcio totale di Cruyff – che non ha sollevato quella coppa del mondo – rispetto alla sua arcigna avversaria, la Germania di Beckenbauer. Ma forse erano altri tempi. Oggi, effettivamente, sembra contare solo la vittoria. Per questo la presa di posizione di Kaurismaki, a favore dei perdenti e dei falliti, fa ancora più simpatia. Viene voglia di sostenerla con affetto persino ideologico.
La marginalità è una sorte condivisa dai poetici sbandati di Charlie Chaplin e dagli abitanti delle squallide periferie di Helsinki. In entrambi i casi, proprio in questi contesti dove manca il pane, il lavoro, una dimora, si intravede non solo la possibilità di una magica redenzione, ma si scopre proprio nel quotidiano più banale la via maestra per allontanarsi, magari melanconicamente, dallo squallore morale del mondo contemporaneo. Senza nessuna necessità di mobilità sociale, dunque. Senza salti di status.
Chaplin trova il modo per uscire dalle sfide dell’esistenza attraverso la sua semplice e geniale filosofia di vita: smile. Se si sorride insieme, come nel finale di “Tempi moderni”, ogni strada può essere percorsa. I protagonisti di Kaurismaki, invece, non ridono mai. In Kaurismaki è presente un altro sogno, parente di quello di Chaplin. Non è piccolo-borghese, come quello prospettato, ad occhi aperti, sempre dal vagabondo di “Tempi moderni” – una casetta bianca con una mucca da mungere appena fuori dalla porta. D’altra parte anche Chaplin rifiuta questi sogni, in quanto non risolutivi. Ce lo mostra in tutti i suoi finali, sospesi e aperti alla vita. Non ci sarebbe infatti motivo per negare l’happy end piccolo-borghese ai suoi personaggi, se solo Chaplin pensasse che è quello, appunto, il finale più lieto. Chaplin non fa finire i suoi film come finiscono “I promessi sposi”, cioè con una delusione narrativa totale: con la fine dell’avventura che coincide, grossomodo, con la fine della vita. Se il vagabondo si fermasse in quella casa e non proseguisse camminando verso l’orizzonte, il suo sogno di felicità svanirebbe. La felicità, in Chaplin, non sta nella chiusura ma in un’apertura al mondo.
Il sogno di Kaurismaki incorpora questa dimensione del cinema di Chaplin, e la tratteggia in una direzione esplicitamente proletaria. Emerge dal fondo dei suoi film una peculiare, stravagante concezione della solidarietà di classe. C’è infatti un affetto antropologico, prima che politico, tra i diseredati che abitano i baracconi, i grigi condomini, i dormitori di Helsinki. A guardarli, sembra che ognuno stia aspettando il momento buono per fregare il prossimo. Ma allo stesso tempo ognuno aspetta anche il momento giusto per aiutarlo. Basta saper riconoscere l’amore, quando ci si presenta. Anche se si nasconde – timido, senza esotismi da femme fatale – ad arrostire salsicce dietro il bancone di un caravan notturno.