Maso Spilzi: non chiamatelo Museo
Folgaria: da museo etnografico di una comunità a banale mostra didattica. Cronaca di una vicenda e dei suoi non-sviluppi.
A Folgaria ha sede il cosiddetto "Museo Maso Spilzi", fino a qualche anno fa significativo museo etnografico della comunità locale. Ma poco dopo l’apertura, gli oggetti esposti - generosamente donati dai paesani - finiscono inspiegabilmente in uno scantinato del Comune, dimenticati da tutti, al punto che all’Apt c’è chi è convinto che siano stati restituiti ai precedenti proprietari.
Al loro posto, una mostra didattica dedicata alla torbiera e alla foresta, e un’altra dedicata alle "tracce sulla neve" nella quale gli oggetti etnografici, forzatamente allusivi al turismo invernale, si contano sulle dita delle mani. Abbiamo cercato di ripercorrere le vicende, passate e presenti, di questo non più museo.
Maso Spilzi, risalente alla prima metà del Settecento, è la fusione di un maso rurale e di una residenza nobiliare fortificata. Un maso quindi atipico, immerso in una delle più belle passeggiate poco oltre Costa di Folgaria, acquistato saggiamente a metà degli anni ’80 dal Comune, il quale, dopo un concorso d’idee, decise di trasformarlo in un museo etnografico che testimoniasse la vita della comunità nel passato, dando così anche uno spunto in più al turismo culturale, sempre in cerca di storia e tradizioni, al quale l’Altipiano, allora come oggi, aveva ben poco da offrire (Folgaria è fuori dai circuiti estivi che richiamano turisti in cerca, dalla musica all’arte, dal teatro alla danza, di cultura; peccato, ne avrebbe le potenzialità).
Una scelta azzeccata, che trova favorevoli gli operatori turistici e soprattutto gli abitanti, generosi nel donare al museo vecchi oggetti familiari in loro possesso, dagli attrezzi agricoli al piccolo artigianato, dagli oggetti domestici ad altre interessanti testimonianze della cultura materiale. E così nei primi anni ‘90 il museo apre. L’ingresso è gratuito, la didattica forse non è all’avanguardia - come del resto nella maggior parte dei musei italiani - ma in fondo sono gli oggetti a parlare.
La nuova amministrazione comunale, succeduta a quella grazie alla quale era nato il museo, con la complicità della Provincia stravolge - leggiamo sull’Adige del tempo - "il progetto iniziale che voleva fare del Maso un museo etnografico, un museo degli usi e costumi della gente dell’Altipiano. L’idea iniziale è stata capovolta, il vecchio maniero forse ora è più immediato, meno impegnativo, meno cupo di un museo, rispecchia la modernità del tempo, forse la sua proposta è più semplice, meno solida, meno legata al territorio".
Al visitatore pagante, Maso Spilzi si presenta ora, col nuovo ed attuale allestimento, come una duplice esposizione. La prima parte è una discreta mostra didattica sulla torbiera e la foresta rivolta ai più piccoli, con una forte dose di tecnologia acustica (musica new age e rumori di animali, nulla più!) con spazi spesso sprecati da suggestive cadute di stile (tra tutte, la "stanza della zanzara" ove si può leggere zzzz zzzz s’una parete ed ascoltare da casse acustiche il rispettivo rumore in originale (tra l’altro non funzionante nel corso della nostra visita), e un grosso armadio dai mille cassetti, ognuno dei quali presenta al suo interno la fotografia di un uccello). Si procede lungo questo allestimento assai costoso (parecchie centinaia di milioni di lire, cui vanno aggiunti i costi della manutenzione, sicuramente alti visto la dipendenza tecnologica dell’insieme), aprendo porte che nascondono disordinati sgabuzzini (basterebbe un foglio di carta per segnalare il divieto d’ingresso...) e superando con difficoltà i rigidi separa-ambienti in spessa plastica (abbiamo avuto testimonianza diretta di come fossero disagevoli questi inutili aggeggi per le persone più anziane).
La seconda parte del percorso, "Tracce sulla neve", è forse più interessante ma altrettanto discutibile. Se, qua e là, qualche sparuto oggetto antropologico compare, esso è forzatamente accostato al solo rapporto con la neve, con la stagione invernale, un tempo la meno attiva per gente che trovava da vivere quasi esclusivamente nel lavoro dei campi. Apprezzabili invece le testimonianze orali raccolte sul com’era la vita ‘sti ani antichi, veri documenti al pari degli oggetti. Peccato che anche in queste sale facciano la loro nefasta comparsa parecchie chincaglierie, kitsch nella loro tecnologia, come le foto con scene di sci sulle quali, azionate da pompe d’aria, cadono finti frammenti di neve.
L’insieme, sia ben chiaro, a parte le sopracitate défaillances, non è negativo, anzi, didatticamente potrebbe essere interessante, se si scegliesse un linguaggio meno artificioso; per lo meno rende in qualche modo partecipi i più piccoli alla vita della natura, specialmente a quella del circondario, minacciata com’è da campi da golf e piste da sci. Il fatto è che per questo percorso didattico, che per la mancanza di oggetti non può essere chiamato museo, si è provveduto ad eliminare un’interessante raccolta di testimoni della cultura materiale locale. Eppure sarebbe bastato poco per far convivere oggetti e didattica, unendoli in un’idea di eco-museo, di museo diffuso che sempre più piace, in primis proprio al turista. E invece no. "Il Comune - ci dice Fernando Larcher, storico della comunità di Folgaria nonché esponente locale del WWF - era evidentemente disinteressato alla continuità del museo etnografico, e ancor di più la Provincia, che spingeva alla creazione di un qualcosa di più moderno, che comunque non sembrasse un doppione di S. Michele".
Un timore museograficamente e storicamente sbagliato, perché questi oggetti, che non sono opere d’arte ma testimonianze materiali della vita di una comunità, hanno senso specialmente se conservati in loco, se sono uniti con un filo invisibile alla comunità nella quale sono nati e dove hanno svolto la loro funzione; è un po’ come per i centri storici, che hanno grande interesse nel loro insieme, nel loro rapporto con la storia ed i mutamenti della città, e non come singoli edifici. Il percorso didattico di Maso Spilzi, proprio perché virtuale, può tra l’altro essere racchiuso nell’agevole spazio di un CD ROM, senza nulla perdere della sua funzione educativa. L’oggetto storico va invece visto, talvolta perfino toccato, e non celato nello spazio inagibile di un magazzino comunale. Comunque, lo ripetiamo, mostra didattica e museo etnografico potevano coesistere, in simbiosi, organizzando meglio gli spazi.
Le nostre osservazioni trovano conferma in due considerazioni: il fallimento in termini di visitatori di questo spazio espositivo, affermatoci da più persone, e la contrarietà di buona parte della comunità, per lo meno di quella che, privatasi di oggetti dall’alto valore affettivo per un sempre più raro sentimento collettivo, li vede scomparire in un magazzino; senza dimenticare il parere di chi, visitato il precedente allestimento e tornato per rivederlo, rimane di stucco. Per dirlo con le parole di una signora di Vicenza, tratte dal libro delle presenze: "Sono rimasta delusa per non aver trovato gli oggetti dell’arte contadina che avevo visto circa 3 anni or sono. Questa mostra è bella ma fredda mentre quella di prima ci ricordava tempi trascorsi e le vecchie usanze dei nostri avi". Ulteriore riprova dello sbaglio culturale (ma anche economico e turistico) ci è giunta infine dal colloquio con Giovanni Kezich, direttore del Museo degli Usi e Costumi della Gente trentina di S. Michele: "La collezione un tempo conservata a Maso Spilzi è di notevole livello, perché specifica del luogo; mettendo queste testimonianze in un deposito, si è andati contro le aspettative della comunità. L’attuale mostra (sulla foresta, la torbiera e le impronte sulla neve, n.d.r.) di Folgaria, realizzata a caro prezzo e con un linguaggio museale pieno di pretenziosità, astruso, fintamente minimalista, è l’esempio di qualcosa fatto proprio contro gli interessi della stessa comunità. Insomma, una scelta fortemente improvvida, alla quale il Museo di S. Michele è completamente estraneo".
Ci si chiede a questo punto perché, se le cose dovessero restare così, gli oggetti non vengano restituiti ai donatori. Ci si chiede soprattutto la motivazione culturale che sta dietro questo eclissamento, e quale è il destino ultimo di questi testimoni della storia. Il disinteresse regna però sovrano, e se dall’Apt ci sentiamo dire con poca convinzione che "questi oggetti sono stati restituiti ai proprietari, i quali, se vorranno, potranno ridonarli al museo per essere nuovamente esposti" (sic!), non certo meglio ci è andato il breve colloquio telefonico con chi, fra tutti, dovrebbe avere più a cuore la faccenda, l’assessore alla cultura del Comune di Folgaria Federico Barbieri. Il quale era più preoccupato da chi diavolo ci avesse dato il suo numero di cellulare che dalle questioni sull’ex museo. Riguardo alla sorte degli oggetti, dopo aver confermato la loro presenza in un magazzino comunale e aver detto che non sono visibili nemmeno su appuntamento, ha concluso che "questi oggetti è come se non ci fossero" (speriamo che Barbieri si renda conto che questi documenti storici necessitano di un minimo di manutenzione…).
Sul perché si sia deciso di cancellare un museo, la risposta è stata sibillina: "Non ero in giunta quando hanno preso questa decisione e quindi non le so dire i motivi".
Al di là delle recriminazioni, vorremmo, in conclusione, soprattutto esortare chi di competenza a prendere atto della situazione, guardando magari ad altre realtà, anche fuori regione, anche fuori d’Italia, dove si parla di museo diffuso sul territorio e di eco-museo; realtà sempre più ricercate da turisti che, sia per numero che per qualità, non si dovrebbero disdegnare. Folgaria, con una buona gestione e una buona programmazione, potrebbe offrire molto: dal Museo etnografico di Maso Spilzi alle malghe, dalle visite didattiche alla torbiera e nei boschi ai percorsi tra i forti, da percorsi che colleghino ai comuni di Lavarone e Luserna a molto altro ancora.