“Il pianista”
Toccante film di Roman Polanski, che bambino riuscì a fuggire dal ghetto di Cracovia, e ora a 70 anni rievoca con grande intensità la tragedia del ghetto di Varsavia.
Dopo aver visto "Il pianista", le peripezie tragiche del musicista Wladyslaw Szpilman nel ghetto di Varsavia dall’invasione nazista alla sua liquidazione, dove forti sono i richiami autobiografici del regista, si può meglio capire da dove nasce la complessità, e unicità, del suo cinema, l’origine della sua visione esistenziale, degli incubi e delle ossessioni, anche della tenuta delle radici culturali via via arricchite nei nuovi contesti in cui operava.
Proprio per la capacità di raccontare qui la storia di un’altra persona, cui intreccia i ricordi e il suo vissuto da bambino, astraendola dal nocciolo doloroso della propria vita, che è stato poi il nocciolo di coerenza del suo cinema, si riesce a cogliere il filo conduttore dei suoi film: l’inquietudine che attanaglia l’uomo contemporaneo, senza via d’uscita, l’esplorazione delle pieghe più oscure dell’animo, un disordine esistenziale-sociale, storie persecutorie ("L’inquilino del terzo piano"), un progressivo svelamento di atti crudeli, la violenza e l’orrore che sfociano in sadismo e in perniciose passioni, che frantumano ogni sicurezza ed esplodono in tragedia, ("Luna di fiele"), fino al ruotare ossessivo intorno al rapporto vittima-carnefice ("La morte e la fanciulla"), dove il trauma delle sevizie fisiche e psichiche è superabile solo con un risarcimento necessario, pur anche morale, inizio di un processo intimamente liberatorio.
La sua cifra stilistica, prsonalissima, è modulata sulla commistione di assurdo, horror e angoscia del vivere, tipica sì della modernità ma in lui di ben più intima provenienza, su un via via perfezionato senso dello spettacolo percorso da un che di ironico, a volte sardonico.
Polanski trascorre la sua infanzia nel ghetto di Cracovia, dove i genitori, emigrati ebrei a Parigi, ritornarono, nostalgici della terra natale, qualche anno dopo la sua nascita, e dove subirono occupazione nazista ed olocausto. Il padre riuscì però prima a far fuggire il figlio Roman, di dieci anni; egli sopravviverà alle crudeli, indelebili esperienze riservategli dalla furia nazista, fughe, rifiuti, fame, randagismo, nascondigli, terrore, come lui stesso scrive nell’autobiografia, e di cui si leggono echi in questo film, che solo a 70 anni, dopo una lunga carriera di autore eclettico e originale, si è sentito pronto a mettere in scena, con risultati toccanti.
Il film segue una struttura lineare, dall’andamento classico e dallo stile rigoroso, crudo ma moderato, di rara intensità nella rappresentazione realistica di ciò che sta avvenendo, in cui si assiste all’ineludibile procedere della Storia, agli orrori della distruzione del ghetto e all’annientamento di un uomo, un pianista di talento e di acuta sensibilità, che si allontana dalla sua famiglia, ammassata nell’attesa della deportazione a Treblinka, senza un cenno o una parola, rispondendo al cenno del conoscente ebreo al servizio di controllo nazista, che lo lascia fuggire.
La prima parte del film, che descrive la vita familiare e sociale in cui si muove Szpilman, quando ancora si svolge normale e poi quando comincia a sgretolarsi e a frantumarsi, è funzionale proprio a connotare di realtà gli orrori di poi che si fatica a credere veri, ad esprimere come, insinuati nel flusso di un’assodata normalità, i brutali agenti di un’ideologia folle, abnorme, crescono, si allargano e da inconcepibili si fanno fatali. Dopo lo sgomento, l’insofferenza, la rabbia increduli, si sprofonda in un incubo deserto e tetro, e solo una rassegnazione svuotata e impotente risponde alle mostruosità che deprivano vittima e carnefice di ciò che fa di un uomo un uomo.
E la seconda parte porta attraverso l’inferno, la devastazione fisica e spirituale, dove il paesaggio diviene un immenso cumulo di macerie e un ammasso di cadaveri, dove l’istinto di sopravvivenza assorbe ideali, ricordi, sentimenti, che si sono inibiti, il terrore assorbe la pietà e assume dimensioni intollerabili che congelano cuori e menti. Ciò che ora conta è il cibo, più importante del tempo, come dice Wladyslaw quando, segregato in un appartamento, consegna il suo orologio in cambio di cibo e sopravvivenza. E attravrso questo orrore, che momenti di grande pregnanza visiva restituiscono nella sua realtà di evento, si compie il viaggio del protagonista, braccato, randagio, affamato, umiliato, spiato da delatori; "attraverso un dolore non più fisico ormai, ma intellettuale e interiore, da cui emerge la sua natura quasi impalpabile di sopravvissuto solo" (parole dell’ottimo interprete, Adrien Brody), negli inferi della Varsavia rasa al suolo.
Testimone attonito del degrado di eventi e di uomini, che cela le emozioni, trapelanti solo da sguardi e piccoli cenni, è il suo talento musicale che gli permette di vivere in una dimensione di consapevole distacco: è attraverso le note del piano, che egli suona con la tastiera che è dentro di lui, che riesce a sopportare il dolore e la tragedia in cui è immerso. Oltre che tramite l’intervento di un ufficiale tedesco, un buono e amante della musica, che gli porta cibo e abiti.
Altro pregio del film, che gli dà il respiro del grande cinema, che comunica emozione solo con l’intensità e la forza dei contenuti e dello stile, incisivi in profondità, senza mai cedere ad un’estetica o a uno spettacolo gratuiti ed effimeri, è la capacità di inserire in una trama di storia collettiva la storia privata di un uomo, tenendole in equilibrio, in un intreccio necessario per la comprensione dei fatti, i piccoli e i grandi, ormai inestricabili.