La trappola dell’educazione
Come la scuola rischi di diventare uno strumento al servizio delle aziende, per formare “risorse umane” anziché cittadini. A colloquio con l’economista Riccardo Petrella. Da L’Altrapagina, mensile di Città di Castello.
La globalizzazione non è soltanto un processo economico che riguarda l’economia e i mercati, è anche un evento che cambia il senso e i fini dell’educazione nei paesi occidentali.
Ne parliamo con Riccardo Petrella, docente di economia all’università di Lovanio e impegnato da tempo a smascherare la "narrazione fondamentale" del sistema dominante: "Il progetto di globalizzazione - afferma Petrella - ha provocato una riduzione sempre più accentuata della persona a ‘risorsa umana’. Le imprese, per diventare competitive sul mercato mondiale, devono ridurre i costi e aumentare la loro capacità di innovazione. In questo gioco le persone sono essenziali, ma solo in quanto acquistano competenze e qualifiche così elevate da permettere alle imprese di rimanere sul mercato. Così l’educazione diventa uno strumento importante al servizio delle aziende e viene ridotta esclusivamente a un sistema di formazione delle "risorse umane" che permettono di offrire migliori beni e servizi sul mercato".
Perché l’espressione "risorse umane" le appare così poco innocente?
"Non si tratta di una finezza linguistica, per la quale non mi straccerei le vesti, ma della riduzione della persona umana a merce. Infatti la risorsa umana ha valore solo nella misura in cui può contribuire al rendimento del capitale; è diventata uno strumento al pari del carbone o del petrolio e la sua bontà dipende dalla capacità di far fruttare di più il capitale investito nell’impresa. Non a caso si parla di mercato del lavoro, dove si scambia e si vende merce".
Come si è arrivati a un esito così disumanizzante?
"Perché negli ultimi trent’anni a livello economico si è adottato il principio che tutto dev’essere valutato in funzione del rendimento del capitale investito. E’ il value for money, che la stessa Commissione Europea dove io lavoro considera come il criterio di fondo per giudicare qualsiasi politica o attività: qual è il valore per il denaro che il contribuente europeo ha speso per finanziare le attività dell’Unione? Questo principio, apparentemente così sensato, mistifica tutto, perché è il rendimento del capitale a diventare parametro di definizione delle priorità e dei valori della società".
Ritorniamo all’educazione. Quali sono le ripercussioni di questo cambiamento in campo educativo?
"E’ una enorme perversione aver accettato di mettere il sistema educativo al servizio della formazione delle risorse umane perché contribuiscano al massimo rendimento del capitale finanziario sul mercato mondiale. Significa aver modificato completamente il ruolo del cittadino nella società. L’educazione non è più aiutare le persone a crescere attraverso un processo collettivo di trasmissione di cultura e di valori e per mezzo di una rete di relazioni interpersonali. Non si vuole che gli individui diventino cittadini realizzandosi come persone; si punta invece a ridurre le persone a "risorse" e quindi a strumenti di rendimento del capitale. Al limite, non c’è più né cittadino né società, ma solo mercati, capitali e redditi".
Il nostro capo del governo ha lanciato da tempo lo slogan secondo il quale la scuola deve riformarsi secondo le tre "i": inglese, internet, impresa. Siamo di fronte a una modernizzazione o a una involuzione?
"Siamo di fronte alla strumentalizzazione di alcuni fatti utili. Certamente è utile parlare inglese e saper usare internet, ma è un’aberrazione assumerli come criteri di appartenenza all’umanità. Con una logica simile un pakistano che parla solo urdu o un anziano che non è collegato in rete non farebbero parte della società mondiale.
Stessa cosa per quanto riguarda l’impresa. Dire che tutto dev’essere trasformato in impresa, dalla scuola materna all’ospedale, all’università, e che tu sei persona soltanto se partecipi a un processo di imprenditorialità, è una mistificazione. L’impresa infatti non serve a produrre beni comuni o ad aumentare la sicurezza collettiva, ma solo a massimizzare il profitto.
Quel che è scandaloso non sono le tesi di Berlusconi, rimasticatura dell’ideologia economica dominante negli Stati Uniti da una trentina di anni a questa parte, ma il fatto che gli italiani vi abbiano aderito. Se le si esamina senza preconcetti, ci si accorge di quanto si è impoverita la nostra concezione del vivere in società. Le tre ‘i’ sono l’espressione più semplicistica e mistificatrice del vivere insieme e del ruolo dell’educazione".
E qui Petrella porta un esempio calzante di logica imprenditoriale: "Tre mesi fa in un biscottificio della Danone, a Lille, sono state eliminate 3.800 persone non perché non fossero produttive, ma perché rendevano solo il 7,34% di ritorno sugli investimenti. Oggi, invece, nel mondo globalizzato il capitale investe in una impresa di biscotti soltanto se il rendimento è mediamente del 12%".
Se l’educazione è al servizio dell’impresa, e l’impresa si basa sulla competitività, non le sembra che l’atto educativo sia una specie di introduzione alla guerra?
"La competitività è una logica di guerra, perché ammette che il diritto alla vita non è per tutti e dunque è razionale, sia per l’individuo che per l’impresa, cercare di sopravvivere eliminando l’altro. Siamo agli antipodi dell’educazione, e-ducere, permettere a ciascuno di esprimere la sua capacità creatrice per armonizzarla con quella degli altri nella società. I sistemi educativi, strumentalizzati al servizio dell’impresa, non accettano più il concetto di uguaglianza, che significa il diritto di essere rispettati perché tutti siamo persone e abbiamo diritto alla cittadinanza. Sostengono, al contrario, che chi non è tra i migliori non ha diritto all’esistenza e può essere eliminato; non è giusto nemmeno che venga difeso, perché è incapace di sopravvivere e ogni politica che mira a mantenerlo sul mercato è insensata".
Ecco perché, spiega Petrella, alla televisione o sui giornali si moltiplicano gli inviti di intellettuali e docenti universitari a tornare alla meritocrazia. "Si vuole stabilire un sistema di ineguaglianza anche tra i vari istituti di educazione. Bisogna lasciare che le università migliori lo diventino sempre di più ed eliminino le altre; che esistano gerarchie differenziate fra di loro e che al vertice ci siano quelle che fanno ricerca e diminuiscono sempre più l’attività di insegnamento. Non fa scandalo che vengano finanziati i meccanismi di accentuazione delle disuguaglianze, perché si invoca il principio di opportunità: i risultati delle università migliori produrranno effetti a cascata che risulteranno benefici anche per le altre. In fondo è utile per tutti che si arrivi a conoscenze sempre più sofisticate, perché così può aumentare la produttività del capitale; d’altra parte, le disuguaglianze tra istituti educativi a livello internazionale li stimoleranno all’innovazione sul piano della formazione e della produzione di conoscenza".
Sarebbe la famosa "competitività tra istituti educativi" caldeggiata anche dall’Unione Europea?
"Esattamente. Per quanto le direttive europee in materia di educazione contengano anche aspetti molto positivi, è indiscutibile che contribuiscano a creare una mentalità di questo genere".
Lei è molto critico del concetto di equità, che contrappone a quello di educazione per l’uguaglianza. Potrebbe spiegarci qual è la differenza sostanziale tra questi due atteggiamenti?
"Oggi si accetta pacificamente che sia equo che esistano disuguaglianze tra le persone a livello di diritti e di cittadinanza. La motivazione è semplice: sono stati raggiunti risultati educativi ineguali, dunque non si può pretendere che tutti partecipino a pieno titolo al dibattito civico. Se dopo un certo numero di anni di scuola dell’obbligo non sei riuscito ad andare all’università, non puoi prendere parte alla discussione sulla bioetica, sul nucleare, sulla proprietà intellettuale, perché ti mancano le conoscenze di base. E’ equo che quelli che non sanno non possano essere cittadini a tutti gli effetti o godere di una remunerazione adeguata per soddisfare le proprie esigenze economiche e sociali. Non hai contribuito al reddito del capitale a causa delle tue scarse conoscenze, non puoi pretendere di avere un uguale accesso al Welfare. La giustizia stabilisce che tu hai certi diritti semplicemente perché sei una persona, l’equità te li concede solo in funzione della tua produttività sul sistema del rendimento del capitale. Viene così evacuata ogni idea di migliorare la convivenza civile, vengono azzerate tutte le conquiste sociali e distrutti i processi democratici. Siamo davvero di fronte a un grande pericolo".
Come ci si può liberare dalle trappole che abbiamo esaminato per riprendere un autentico lavoro educativo?
"Bisogna recuperare il concetto di cittadinanza e il significato del vivere insieme. Io dico in maniera semplice, ma ricca dal punto di vista simbolico, che l’obiettivo principale dell’educazione è quello di imparare a dire ‘buon giorno’ all’altro. Gli adulti devono avere una visione non strumentale, non mercificante del sistema educativo: le scuole non servono perché i loro figli diventino i più bravi e domani possano avere un reddito migliore. Occorre spiegare ai genitori che l’asse del sistema educativo si sta spostando verso una logica di giungla, che privilegia 7 o 8 persone su cento e abbandona tutte le altre. E poi battersi contro la privatizzazione della scuola, perché l’educazione deve restare uno dei compiti fondamentali della res publica.
In questa fase bisogna vigilare sull’educazione a distanza on line, che costituisce il cavallo di Troia della privatizzazione delle scuole secondarie. I prodotti pedagogici on line sono fatti da società private e venduti secondo una logica privatistica. Intendiamoci: non ho nulla contro l’educazione a distanza, ma contro i processi di privatizzazione che esse stanno producendo".