Candidature: fra disgusto e smarrimento
Al tempo dell’antica Roma coloro che si proponevano per essere eletti, dal popolo o dal Senato, alle varie magistrature, dovevano vestirsi di bianco. Il candore era la prima qualità richiesta, cioè la pulizia, l’assenza di macchie. Anche allora sotto il nitore della tunica poteva celarsi del marcio. Così già andavano le cose nel mondo. Tuttavia è significativo che l’appellativo sia rimasto consolidato nel linguaggio ancora oggi, e chi si propone per essere eletto al Parlamento (o negli altri organi del potere rappresentativo) è denominato candidato, cioè candido, il puro per antonomasia.
Gli ordinamenti democratici hanno risolto il problema della scelta fra i candidati. Essa spetta al corpo elettorale, ma può avvenire secondo criteri e meccanismi molto diversi. I candidati possono presentarsi raggruppati in liste contrapposte, e l’elettore vota prima la lista e dentro di essa il candidato o i candidati preferiti. Oppure in ciascuna porzione di territorio si presentano singoli candidati e l’elettore vota per l’uno o per l’altro.
Questi due sistemi tipici, il primo detto proporzionale con voto di lista, il secondo definito maggioritario a collegio uninominale, hanno vizi e virtù in eguale misura. Tanto che si sono immaginate combinazioni varie fra i due sistemi nel tentativo di attenuarne, di ciascuno, i vizi e sfruttarne le virtù. In questa sperimentazione di ibridismo sistemico si sono segnalati i legislatori italiani che, in un lampo di eccelso genio nazionale, hanno concepito la legge elettorale vigente per l’elezione della Camera dei Deputati, il famoso e famigerato Matarellum. In essa, nel dichiarato proposito di valorizzare i pregi dei due sistemi, in realtà si è invece riusciti s conservare soprattutto i difetti di entrambi. Basti pensare che con la buona intenzione di risarcire le minoranze che fatalmente sono emarginate dai collegi uninominali si è inventato il meccanismo dello scorporo per il proporzionale, che ha portato la fervida fantasia italica ad escogitare le liste civetta, cioè un trucco bello e buono, peraltro perfettamente legittimo.
Ma ciò che non è stato risolto è il problema della scelta dei candidati. Per il vero, le leggi prevedono che per candidarsi occorre avere un minimo di rappresentatività. Infatti la presentazione delle candidature esige il rispetto di precise formalità ed il supporto di un sia pur limitato numero di firme.
Ma è la fase che precede queste formalità che presenta un vuoto pauroso, tale da procurare un vero e proprio horror vacui. Tale è infatti lo stato d’animo del cittadino, sospeso tra il disgusto e lo smarrimento, innanzi alle cronache sul lavorio concitato e spesso indecifrabile che si svolge ai vari livelli prima della designazione dei singoli candidati. Ciò che sconcerta è la assoluta mancanza di visibili e convincenti motivazioni che suffraghino le varie scelte, di regole e procedure e criteri che devono essere rispettati per giungere ad esse, di consultazioni, sondaggi, espressioni della cittadinanza non organizzata. Tanto che i risultati sono molto volte incomprensibili, deludenti o addirittura indigeribili.
C’è chi pensa che tutto ciò costituisca uno spettacolo che rende estraneo, ancor più di quanto già non lo sia, il cittadino alla politica. Se ciò fosse vero, ed in parte temo che lo sia, sarebbe motivo di allarme.
Bisogna riconoscere che il problema della scelta dei candidati in una società numerosa e complessa non è di facile soluzione. Come è noto, negli Stati Unite vige il sistema delle primarie che impegnano per circa un anno prima delle elezioni gli elettori attivi dei due schieramenti nella pre-selezione del rispettivo candidato secondo modalità e procedure rigorosamente disciplinate. In Europa (e anche in Italia ai tempi della prima Repubblica) sono i partiti organizzati che fungono, con la loro democrazia interna, da macchine selezionatrici del personale politico. Entrambi i canali sono tutt’altro che perfetti, ma certamente preferibili al nulla esistente da noi. Addirittura anche quel poco che abbiamo in casa nostra è poi di fatto neutralizzato dalle opposte anomalie che inficiano il nostro mondo politico.
Abbiamo anche noi i partiti organizzati: per quale motivo non riescono a funzionare come democratici canali della società civile per far emergere da essa un ceto dirigente accettabile?
Gli è che a destra lo schieramento ha una organizzazione di tipo aziendale e verticistica, ed è retto da un monarca assoluto. A sinistra i partiti, ancorché non a diffusa partecipazione democratica, sono comunque composti da una larga collegialità oligarchica, ma a loro volta sono inceppati nella logica della coalizione che impone mediazioni, spartizioni, dosaggi che finiscono per allontanare le decisioni dalla base e spostarli alle più alte sommità.
Oggi tutti si lagnano delle astruserie del nostro sistema elettorale. Ed infatti è vero che i suoi vizi irradiano il loro effetto malefico anche sulla fase della cernita dei candidati. Ma in Commissione bilaterale non era stato raggiunto un accordo per riformare, oltre che la seconda parte della Costituzione, anche la legge elettorale? E non fu Berlusconi a far saltare l’accordo, e quindi bloccare la riforma? Ancora una volta registriamo un problema irrisolto e vi troviamo il marchio del Cavaliere.