Senz’armi né divise per fermare i conflitti
“Corpo civile di pace europeo”: che cos’è e perché, in molti casi, sarebbe preferibile a un contingente militare.
"Conflitto: combattimento, guerra, scontro di eserciti"; "Conflitto: contesa rimessa alla sorte delle armi, guerra". Questo quanto si legge aprendo alla voce "conflitto" un qualsiasi vocabolario della lingua italiana. E’ poco, signori Treccani, Devoto, Oli; troppo poco. Perché se il conflitto è sinonimo di guerra, non si tratta solo dell’urto violento, ma anche di tutto quello che lo precede e lo segue, i drammi, l’odio, le vendette, i rancori, la disperazione, la morte. Ma anche e soprattutto perché dovremmo cominciare ad intendere questo termine in un’accezione più ampia, nuova, rivoluzionaria. Mi piace attribuire a "conflitto" un concetto meno specifico, forse, ma più duttile ed articolato.
La prima idea dalla quale dobbiamo imparare a liberarci è quella che un conflitto implichi inevitabilmente un intervento di tipo militare, fosse anche del tipo di "peace keeping" come quello sperimentato in questi ultimi anni dalle forze armate delle Nazioni Unite (Caschi Blu).
Il ruolo che potenzialmente rivestono i civili nella prevenzione, ma anche nella soluzione, dei conflitti è purtroppo a tutt’oggi grandemente sottovalutato. In un rapporto adottato a Strasburgo il 17 maggio 1995 dal Parlamento Europeo in una sessione plenaria e inserito nel trattato di Maastricht, si è affermato che "un primo passo verso un contributo nella prevenzione del conflitto potrebbe essere la creazione di un Corpo Civile Europeo (che includa obiettori di coscienza) con il compito di addestrare osservatori, mediatori e specialisti nella risoluzione dei conflitti".
Dobbiamo riconoscere il grande contributo dato dall’europarlamentare Alexander Langer per aver curato ed approfondito questa proposta, che ha permesso di risollevare la questione anche in sede dell’incontro/conferenza del 9 dicembre 1999 presso la sede del Parlamento Europeo a Bruxelles dal titolo: "La creazione di un Corpo Civile di Pace Europeo".
Purtroppo stiamo parlando ancora solo di ipotesi, visto che nel recente vertice europeo di Tampere, il Consiglio dei Ministri dell’Unione Europea ha affidato l’incarico a Javier Solana (ex Segretario Generale della Nato che ha diretto l’intervento militare in Kossovo e in Jugoslavia l’anno scorso) di elaborare un progetto di Politica Estera e Sicurezza per la Comunità Europea, e prevedibilmente la questione si è subito incentrata sulla creazione di un corpo internazionale super armato di intervento rapido. In questo modo si stanno però ignorando le premesse storiche, oltre che umane, che giocano a favore di una rivoluzione nelle modalità e negli strumenti della politica di sicurezza internazionale.
Ed anche l’ Italia ha avuto la sua parte quando, nella crisi di governo occorsa lo scorso dicembre, nonostante l’instabilità politica - o forse proprio grazie a quella - in sede di Legge Finanziaria sono stati stanziati per la Difesa Militare oltre 1.000 miliardi in più rispetto ai precedenti accordi; senza contare i 1.6000 miliardi aggiuntivi che lo Stato Italiano si è impegnato a versare (distribuiti dal 1998 al 2006) per la costruzione del caccia europeo "Eurofighter 2000", con sottrazione di fondi dal bilancio dell’edilizia sanitaria.
Cifre alla mano, una cosa è sicura: l’operazione di un Corpo Civile di Pace è di gran lunga più economica di un qualsiasi coinvolgimento militare, dal momento che lo strumento principale del quale si avvale il Corpo Civile è il dialogo non violento, basato sull’educazione e sulla comunicazione per e tra le comunità in maniera capillare.
Certo, bisogna ammettere che non sempre un intervento civile può riscuotere successo (nel caso di fanatismo o di oltranzismo bellico di una o di entrambe le parti in conflitto, per esempio) e che un corpo militare di protezione a livello internazionale ha una sua ragion d’essere. In prospettiva, ciò che va cambiato è la politica di potenziamento di questa unità super armata di intervento rapido sulla quale si investono soldi e speranze, invece che dare più spazio e coraggio a strumenti alternativi e innovativi che, per converso, costringerebbero i vecchi metodi a divenire sempre più una forza di "peace keeping" da utilizzarsi come mezzo estremo.
In particolare, il CPCE (Civil Peace Corp of Europe) si dovrebbe occupare del monitoraggio nelle zone più a rischio e delle denunce alla comunità internazionale delle violazioni dei diritti umani, sfruttando il fatto che i civili disarmati, sotto la guida delle Nazioni Unite, sono un bersaglio "meno naturale" dei militari e che, anzi, fungono da deterrente contro la violenza. Su richiesta specifica ed in forma temporanea, previa legittimazione dell’ONU, il Corpo Civile potrebbe anche subentrare alle autorità ed all’amministrazione dei servizi locali; dovrebbe infine cooperare con le ONG e le organizzazioni umanitarie presenti in loco per facilitare il ritorno dei rifugiati e provvedere ai rifornimenti ed ai servizi.
Non si tratta di sogni né di vane parole. La Forza di Monitoraggio della Comunità Europea in Croazia, le Brigate di Pace (ONG) in Bosnia, l’esperienza dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) in Kossovo e dell’ACNUR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, in inglese UNHCR) costituiscono un esempio concreto della direzione da seguire per costruire la pace in modo visibile.
C’è ancora una barriera, piuttosto ostica, ed è quella di comprendere la rivoluzione profonda inclusa in questa proposta. Se non sono più i soli militari a doversi occupare delle guerre, significa che tutti, in quanto società civile, abbiamo il diritto, il dovere e la responsabilità di prenderci a cuore la questione e di far sentire la nostra voce. Anche perché, come ha spiegato Jorge Amado con una metafora (in realtà riferita allo sciopero, ma ugualmente valida in questo contesto) in un suo bellissimo racconto, un corpo di pace è come una collana di perle: se ne esce una, significa che il filo è tagliato. E anche tutte le altre scivolano fuori.
La fine della contrapposizione a blocchi della Guerra Fredda ha visto in parallelo un pauroso aumento dei conflitti intra ed inter statali, di movimenti indipendentisti, di istanze irredentiste. Questo perché dalla lenta disgregazione dei due fronti stanno riemergendo le differenze prima appiattite e costrette al silenzio dai patti di interesse. E mentre i rifugiati fuggono dalle zone di conflitto, altri conflitti esplodono nelle aree dove essi arrivano, mettendo a nudo la delicatezza degli equilibri intimi del tessuto sociale.
In questo nuovo scenario di scontri, gli indiscussi protagonisti, le vittime più numerose, gli attori principali sono i civili. E quindi dai civili, non dai militari, devono nascere le soluzioni, perché i civili possono dialogare più facilmente con altri civili che non i militari. La cultura della comunicazione tra i civili è molto più libera ed informale, per il fatto che non esiste la divisa (che, lo si voglia ammettere o no, induce soggezione) e tantomeno la gerarchia - cosa, questa, che permette ai civili di possedere una migliore comprensione dei valori democratici, dell’importanza del dialogo e della diplomazia. In special modo nei conflitti "complicati", con implicazioni di carattere nazionale o di risonanza internazionale in cui siano molti gli interessi in gioco (ne sia un esempio la guerra del Kossovo), la presenza di civili può garantire un intervento a basso profilo, agendo in silenzio e smorzando le tensioni.
Mitrovica: una città nel nord del martoriato Kossovo, al confine con l’altrettanto martoriata Serbia. La città, per la sua posizione quasi a cavallo del confine, è ancora oggi, a quasi un anno dall’inizio dei bombardamenti, avvolta da un clima di tensione per la compresenza delle due etnie serba ed albanese. Giornalmente è teatro di scontri, manifestazioni, piccoli grandi eventi che segnano tacche indelebili nelle famiglie, nelle amicizie, nei legami.
La città è attraversata da un fiume che divide la parte nord dalla parte sud. La presenza costante della KFOR (Kosovo Forces, contingente militare della Nato per mantenere sotto controllo la situazione) garantisce un minimo di ordine pubblico. In che modo? I militari hanno adottato la strategia del dividere : hanno fatto della zona nord un grande quartiere solo serbo, della zona sud una cittadina solo albanese. Sul ponte che collega le due parti, ciascuna etnicamente pura, si susseguono manifestazioni ed incursioni di gruppi di entrambe le parti. Fino a quando resteranno spianati i fucili stranieri, si riuscirà a mantenere una parvenza di calma; ma... quando se ne andranno?