Alberta Cristellon
Una partigiana incompresa dalla sua stessa gente
Spesso le donne che hanno preso parte alla Resistenza non sono state credute, non sono state ascoltate o sono state trattate con sufficienza e disprezzo nelle loro comunità di appartenenza, soprattutto in un territorio come quello montano, parcellizzato e poco propenso alla solidarietà diffusa così viva invece fra le donne della pianura.
Fra queste figure femminili colpisce quella di Alberta Cristellon (Valfloriana 10 agosto 1915-8 dicembre 1989) per le scelte coraggiose fatte e per averne portato il peso da sola per anni. La sua memoria scarna ed essenziale racconta dell’inizio della sua attività dopo l’8 settembre 1943 quando a Valfloriana arrivavano soldati italiani allo sbando, costretti alla fuga, che lei cercava di aiutare fornendo vestiti, cibo e ospitalità. Orfana di entrambi i genitori dall’età di 5 anni – ultima di otto figli di cui almeno quattro morirono giovani – Alberta ha conosciuto da subito gli stenti e la miseria e, in una delle fasi più drammatiche della nostra storia, non si è tirata indietro, non ha esitato ad aiutare come poteva.
Berta, come lei stessa si firma nell’istanza presentata alla Commissione patrioti, al tempo aveva 28 anni, era una bella donna, dallo sguardo intenso, nubile, non doveva quindi rendere conto a nessuno delle proprie scelte. Una donna che probabilmente ha osato sfidare le convenzioni sociali e le opinioni dei suoi conterranei ospitando, soccorrendo e sostenendo l’operato di disertori unitisi alla Resistenza e rimasti a combattere in quelle valli contro la Wehrmacht e le Waffen SS che avevano invaso la regione trasformandola in un’entità amministrativa e territoriale sotto il diretto controllo del Reich.
Alberta non si limita, infatti, ad aiutare i militari italiani allo sbando e i richiamati nel Corpo di Sicurezza Trentino che, rifiutando di prestarvi servizio, avevano deciso, invece, di aderire alle brigate partigiane, ma sostiene e dà rifugio anche a chi aveva disertato dall’esercito tedesco come Franco (pare fosse un ingegnere, ufficiale della Luftwaffe, ricercato) e Heinrich (polacco). Franco finirà poi col perdere la vita il 3 maggio 1945, a guerra ormai conclusa, nello scontro di Miravalle.
Dopo oltre un anno di attività a supporto dei “ribelli”, in seguito a diverse delazioni, Berta viene arrestata nel corso del rastrellamento avvenuto il 18 gennaio 1945 nel territorio di Valfloriana, mentre Franco, che proprio quella notte si trovava in casa sua, fa in tempo a fuggire. Alberta non sarà la sola a subire l’arresto, altre 18 persone, tra uomini e donne (6 soltanto a Montalbiano e Valfloriana), verranno fermate, molte di loro rinchiuse nelle carceri di via Pilati a Trento dove resteranno fino ad aprile e subiranno diversi interrogatori. Alberta parla di una ventina di interrogatori, avvenuti probabilmente nella ben nota “Villa Triste” sede della Gestapo, con i consueti sistemi della Geheime Staatspolizei. Rifiutandosi di collaborare viene, in un primo tempo condannata a morte e in seguito graziata per essere trasferita il 2 aprile, con gli altri, nel Lager di Bolzano da dove, fortunatamente, i convogli ferroviari diretti in Germania non erano più in grado di partire perché la linea del Brennero era pesantemente danneggiata dai bombardamenti alleati.

Dopo la Liberazione Alberta rientra a casa pesantemente segnata: pesa 27 chili e impiegherà 14 anni a ristabilirsi e poter camminare come prima (cfr.: V. Calì e P. Bernardi, a cura di, Testimonianze…, pp. 119-121).
La Commissione le riconosce la qualifica di “benemerita”, ma non otterrà la pensione perché riservata solo ai “partigiani combattenti”. Ha pagato a caro prezzo lo spazio di libertà e di autonomia che si è presa. Il coraggio e la generosità che l’hanno animata non sono stati apprezzati, si sente infatti ingiustamente segnata a dito come fosse una donna di strada, così racconta con indubbia amarezza. Mentre Ugo Perini, voce autorevole della Resistenza trentina, in una lettera a Emilio Parolari lamenta le condizioni in cui versa la Cristellon negli ultimi anni della sua vita, nonostante abbia fatto molto più per la lotta clandestina di quanto lei stessa ha raccontato alla commissione o riferito nelle testimonianze.
La partecipazione delle donne alla Resistenza ha avuto spesso il sapore di una rivoluzione: la promessa di una libertà prima inimmaginabile, una vera e propria vertigine dove finalmente si sono sentite padrone di sé stesse e delle proprie scelte. A Liberazione avvenuta, con il ritorno alla “normalità”, ritornano anche i pregiudizi, soprattutto nei piccoli centri e in una realtà che ha sempre guardato con sospetto i “ribelli”, ancor prima dei massacri compiuti dalle Waffen SS a guerra finita. Alberta ha portato lo stigma di queste sue scelte controcorrente. Personalmente voglio ricordarla come in questa foto: il volto fiero di una franchezza quasi disarmante, lo sguardo penetrante, il sorriso audace.