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“Carlo Alfano. Soggetto spazio soggetto”

L’arte come teatro filosofico. Rovereto, MART, fino al 18 marzo.

In una continua evoluzione che combina rigore ed inquietudine, e che talvolta ci avvolge ma più spesso chiede di pensare, il percorso di Carlo Alfano tra il 1966 e il 1990, anno della sua morte, va da un interesse per la percezione, via via verso il concettuale, e da lì al recupero di dati sensoriali e apparentemente autobiografici.

Dietro certi stacchi evidenti di mezzi espressivi, vere fuoriuscite dalla pittura, si avverte però lo snodarsi di un filo che non si rompe.

Già i suoi quadri monocromi della seconda metà degli anni Sessanta vanno oltre quello che può sembrare un lucido esercizio su elementi primari e mezzi minimi, rivelando subito la volontà di mettere in discussione le certezze della prospettiva, le regole della rappresentazione. Occorre osservare questi quadri con una certa pazienza, perché Alfano, almeno in questa fase, non fa appello alla seduzione percettiva: casomai discute il nostro modo di percepire.

Diverso è l’impatto visivo quando di lì a poco si avvicina alle ricerche “optical”, con superfici che ci catturano in ritmi di segni e fuoriescono dalla dimensioni tradizionali di un quadro per divenire ambienti: però l’artista non si accontenta del gioco ottico, né dell’eleganza formale che pure incontriamo qui come in tutto il resto della sua opera; innesta dei cilindri specchianti che rendono continuamente mutevole la visione man mano che noi spettatori spostiamo il nostro punto di vista. Sono insomma della “macchine” che portano in primo piano la relazione tra opera e spettatore.

E c’è subito un’opera immediatamente coinvolgente, e per vari aspetti centrale nel percorso di Alfano (“Delle distanze dalla rappresentazione”, 1968-1969), che segna un deciso attraversamento dei limiti della pittura: una goccia cade in uno specchio d’acqua e il riflesso deformato del movimento di onde viene proiettato sulla parete d’angolo. Siamo partecipi di una situazione che non solo sollecita più d’uno dei nostri sensi, ma rimanda a sentimenti e concetti: la doppia realtà, il tempo ciclico, l’ombra e la luce.

La pittura – diceva del suo lavoro l’autore napoletano – non attiene solo all’Occhio, ma è anche messa in forma di idee, teatralizzazione letteraria e filosofica”.

A questo punto la sua attitudine all’indagine critica prende una piega molto radicale che lo porta senza esitazioni nei territori del “concettuale”: è il tempo di “Stanza. Archivio delle nominazioni”, del 1969, dove il telaio di alluminio diventa un portale che noi oltrepassiamo, mentre ascoltiamo una voce registrata su nastro molto tempo fa. Di là da quella soglia, la sua ricerca raggiunge un nuovo approdo, che in realtà diventa l’inizio del più durevole dei suoi sentieri d’indagine, fino alla fine, e che lo vede riappropriarsi in modo nuovo degli strumenti tipici del pittore. Sono i “Frammenti di un autoritratto anonimo”, titolo volutamente paradossale e ambiguo, chiave di lettura di opere che sembrano, per le loro grandi dimensioni e l’aspetto austero di fondali neri, monumentalizzare il discorso sull’io, sul soggetto che lascia, in lunghe serie numeriche e in fitte linee di scrittura, la traccia del proprio percorso mentale ed emotivo. L’elemento decisivo sono i vuoti, le cancellature, le rotture di ritmo. Se è un autoritratto, è quello possibile di chiunque, nel quale rientra ad un certo punto, in piena evidenza, il tema dello specchio e del doppio, dell’io e dell’altro che è già in me, che si avvale anche di un nuovo strumento linguistico, il positivo-negativo della pellicola fotografica, e ad un certo punto l’evocazione, più che la citazione, di certe opere del Caravaggio che Alfano legge in questa chiave di problematica ricerca sull’identità.

Ecco, per concludere, le parole che nel 1995 gli dedicò Lea Vergine, una dei maggiori critici italiani, che fu tra i primi a valorizzare l’opera di Alfano quando esponeva alla galleria di Gianni Amelio: “Alfano – e lo ricordiamo bene tutti, amici napoletani, mercanti tedeschi, critici europei – era una sorta di versione maledetta dello Spirito Santo, un temperamento dolce e cupo e grandioso. Artista dell’Oscurità e dell’Ombra, perché stregato dalla complessità che solo attraverso l’Oscurità è perseguibile: complessità intrecciata di sapori ed emozioni filosofiche, letterarie, linguistiche, musicali”.

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