Porfido: la realtà stravolta
Vorrei fare alcune considerazioni in merito alla lettera pubblicata sull’Adige del 24 gennaio a firma di Mauro Stenico e Matteo Colombini, rispettivamente sindaco e assessore all’Industria del Comune di Fornace. Essi iniziano il loro intervento parlando di “crescita inesauribile” per le “nostre comunità” che la “coltivazione del porfido”ha fin qui costituito. In realtà l’unica “crescita inesauribile” è stata quella relativa ai patrimoni dei concessionari di cava!
Il rovescio della medaglia è sempre esistito ed è costituito da dure condizioni di lavoro, monetizzazione dei rischi e rapina di una risorsa non più rinnovabile a danno delle comunità locali.
Appaiono ridicole le affermazione di questi nuovi amministratori, secondo i quali “l’attuale situazione rischia di mettere in pericolo il lavoro” nel momento in cui è sotto gli occhi di tutti una realtà, dal punto di vista occupazionale, drammatica. Sono stati infatti già cancellati quasi due terzi dei posti di lavoro.
Stenico e Colombini si lanciano poi in considerazioni relative alla legge 7/2006, che sarebbe stata attenta a “fornire risposte a Bruxelles e a porre norme di riferimento per il presente più prossimo”, ma non avrebbe “saputo prevedere l’involuzione del settore né l’arrivo di una crisi globale”.
Voglio ricordare a questi signori che l’involuzione del settore è iniziata vent’anni fa con la trasformazione di centinaia di dipendenti in pseudo artigiani con partita IVA. Involuzione proseguita con l’esternalizzazione ad aziende artigiane di interi segmenti produttivi, introducendo per questa via i germi di una crisi che nasce ben prima della crisi internazionale.
Alla caduta del prezzo di alcuni prodotti, primo fra tutti il cubetto, l’imprenditoria del porfido ha reagito infatti cercando di comprimere il costo del lavoro, esternalizzando i rischi e il più possibile i costi ed aumentando la quantità del prodotto (spesso a scapito della qualità); così facendo, essa ha aggravato i fattori endogeni di crisi. Tale imprenditoria ha cercato di lucrare sulla rendita di posizione mantenendo il monopolio delle concessioni estrattive e cercando di controllare gli spazi di commercializzazione del prodotto finito. Questo il neo sindaco di Fornace dovrebbe saperlo bene, dato che suo padre, Marco Stenico, è stato in questi anni uno degli esponenti di spicco di tale imprenditoria, oltre che per varie legislature a sua volta sindaco.
Sempre in merito ai giudizi sulla legge 7/2006, osservo come essa doveva motivare nei confronti dell’UE il perché si concedevano nuove proroghe ai concessionari. Ebbene, una delle motivazioni più forti era costituita dalla preoccupazione di non causare la perdita di posti di lavoro con la messa all’asta delle concessioni. Così le nuove proroghe, da 11 a 18 anni contro i 9 delle precedenti, sono state vincolate, con il comma 5 dell’articolo 33, al mantenimento dei livelli occupazionali. Una norma scardinata con il protocollo del 2012, necessaria scelta di realpolitik, frutto di una “convergenza tanto vasta di soggetti portatori di interessi potenzialmente in conflitto”, come affermano Stenico e Colombini. Forse, aggiungo io, alcuni di quei soggetti si sono dimenticati degli interessi di cui avrebbero dovuto essere portatori.
Aggirando la legge non si è fatto altro che scaricare sui lavoratori e sulla collettività il peso della crisi, consentendo ai concessionari di cava di mantenere una posizione assai redditizia. Infatti, in cambio della possibilità per le imprese di “eventuali riduzioni degli occupati”, ai lavoratori sono state “assicurate tutte le forme di ammortizzatori sociali previste dalle normative nazionali e provinciali” di cui avrebbero comunque avuto diritto.
Appare grave anche il fatto che questi protocolli (uno del 2009 e due del 2012) siano stati tenuti nascosti anche alla commissione del Consiglio Provinciale, guidata dal consigliere Viola, chiamata a esprimere un giudizio sulla legge 7/2006. Questo la dice lunga sulla trasparenza con la quale si è affrontata fin qui la grave situazione del distretto del porfido.
Facendo leva sul vincolo posto dal comma 5 dell’articolo 33 si poteva invece puntare ad un rinnovo contrattuale con contenuti solidaristici, quali la riduzione dell’orario di lavoro e la eventuale ridistribuzione tra le imprese della manodopera. Tutto ciò mettendo al bando il lavoro a cottimo, con sicuri vantaggi per la tutela della salute, la riduzione degli sprechi di una risorsa che non è affatto inesauribile, una sua migliore lavorazione e un prodotto per il mercato di qualità più elevata. In questo modo si sarebbe tutelata l’occupazione ponendo un freno alla spietata e spesso sleale (attraverso le ditte artigiane controllate) concorrenza tra imprese, che oggi caratterizza il settore. Questa sì sarebbe stata una vera soluzione di compromesso, che avrebbe ripartito oneri e vantaggi tra le due parti “potenzialmente in conflitto”!
Ancora una volta, però, le magagne del settore non sono venute alla luce per merito degli amministratori locali, degli organi di vigilanza e dei sindacati confederali, ma solo grazie all’impegno di poche persone che, con umiltà e coraggio, si sono sempre battute per la tutela dei diritti dei lavoratori, del bene comune costituito dalla risorsa porfido e dell’interesse collettivo; persone che i neo amministratori di Fornace definiscono “maestri incendiari”.
Walter Ferrari (coordinamento lavoro porfido)