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Trincee

Archivio storico “Quei de san Bortol”

L’odore di sommossa era nell’aria, penetrava acre nelle narici. L’altra metà di cielo premeva impaziente. Maschi e femmine eravamo sempre rigorosamente divisi: in classe, in chiesa, all’oratorio, in colonia e persino sulla corriera in gita. Ma a noi, adolescenti nel ‘68, gli anni tra il 1965 e il 1970 portarono molta tempesta. Senza averla seminata. Troppo maledettamente piccoli per partecipare, ed anche per beneficiare dell’inebriante ventata di libertà. Scuola e famiglia, per reazione, s’irrigidirono. Ma almeno loro, i sessantottini duri e puri, conquistarono un posto nella storia, mentre noi cosa eravamo? È seccante essere i fratelli minori, i maggiori non fanno che impartirti lezioni. Minori, ma non minorati!

Sempre divisi; fu quasi scandaloso alle medie trovarsi in una classe dove metà alunne studiava tedesco e l’altra metà inglese. Così, due ore in settimana, ci ritrovavamo nella stessa aula, ovviamente in bancate divise, con la classe maschile corrispondente. Due ore sufficienti per creare grande scompiglio ormonale, tra spinte, spintoni e occhiate. Un intero arcobaleno di occhiate. Da pesce lesso, furtive, incantate, maliziose. Noi femmine li studiavamo a distanza, i maschi, senza farci scoprire e mostrando indifferenza se invece se ne accorgevano. Loro si facevano beccare subito. Era il professore a richiamarli a gran voce, spedendoli fuori dalla porta. Tra noi, né cameratismo né complicità. Come potevamo socializzare, se neanche da bambini eravamo abituati a coesistere? Cominciare nella pubertà era impresa ardua.

Il professore applicava la strategia del terrore. I maschi - unico caso, a mia memoria, di loro svantaggio! - erano trafitti da voti irrimediabili. Uno o due, sia nei temi che nelle interrogazioni, dove per lo più facevano scena muta. Quando poi si rendeva conto che non solo non erano intimiditi dai suoi metodi, ma addirittura assumevano un’espressione strafottente, infieriva con offese ed epiteti indicibili. A casa erano increduli, quando raccontavamo quello che succedeva durante quelle ore. Donato, ragazzo di paese, alto e pieno di brufoli, ripetente più volte e alla sua ultima possibilità, perché poi lo avrebbero sbattuto fuori, si prendeva del “bovaro e nettacessi”. Uniche attività per le quali, quell’orribile professore diceva fosse portato.

E io? Per cosa ero portata io? Ero complessata e insicura. Mi sentivo goffa e mal vestita. Mi guardavo e mi sembrava di non riconoscermi: il mio corpo, passato dall’infanzia all’adolescenza in pochi mesi ed era motivo di grande preoccupazione. Né le amiche mi davano sicurezze, anzi. Loredana, la mia occhialuta compagna di banco, mi dimostrò di vederci fin troppo bene. Confessandomi, spontaneamente, che erano i capelli lunghi a farmi sembrar carina; se li avessi tagliati, nessun ragazzo si sarebbe più accorto di me. Sansone in minigonna? Tra i ragazzi delle medie mi piaceva Francesco, uno spirito artistico in erba, capace di emergere nella massa. Sicuramente di statura... ma in realtà era ancora bambino, più interessato a giocare a calcio che a quelle femminucce smorfiose. Cominciavano a girare le prime minigonne ed eravamo in molte ad arrotolare la gonna in vita in modo che si accorciasse. Avevo osato anch’io, quel giorno, e durante l’ora di tedesco i maschi l’avevano notata. Francesco, dalla fila opposta, mi stroncò subito, scandendo a mezza voce: “Hai le ginocchia da calciatore”. Forse per lui era anche un valore, ma confesso che non lo presi come un complimento. Piuttosto come l’inesorabile commento dei “vestiti nuovi dell’imperatore”. Eh... son cose che segnano l’adolescenza e dalle quali non ci si rialza più. Ci vogliono anni di analisi per riprendersi! Quelli come Francesco, senza saperlo, hanno dato lavoro a plotoni di psicoterapeuti.

Le perentorie raccomandazioni materne erano di fare la seria - mai ridere! - tener gli occhi bassi e non fermarsi per nessun motivo. Sì, perché abitavo vicino a una caserma e dovevo comunque passarci davanti per tornare a casa. Poveri ragazzi. Non se la passavano meglio di noi, anche loro vittime di pregiudizi. Se ti fermavi a parlare con un militare, eri una poco di buono. I militari “volevano solo quello”; e per giunta erano anche terroni! Ma a fischiare con due dita, quando passavo, erano tutti bravissimi. Liberatori fischi da stadio per sentirsi vivi durante la libera uscita in divisa, con l’umiliazione dei capelli rasati in anni in cui andavano di moda i capelloni. Per scordare che uscivano dalle trincee, tenacemente scavate dalle loro mamme, per finire dietro un filo spinato...

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