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QT n. 22, 9 dicembre 2000 Monitor

Himalaya

Si è visto di recente sugli schermi "Himalaya. L’infanzia di un capo", del francese Eric Valli, film insignito della Genziana d’Oro all’ultimo Festival della Montagna e ora della nomination all’Oscar come migliore film straniero. Ed è veramente un bel film, non solo per la splendida rappresentazione visiva, con inquadrature di esterni ed interni simili ad affreschi dei secoli scorsi, ma per la messa in scena di una storia emozionante di cui è protagonista una piccola comunità sperduta in mezzo agli imperiosi monti himalayani, gelosa custode, forse tra le ultime, della tradizione culturale tibetana.

Gli habitués del Festival hanno avuto modo di vedere e rivedere, in numerosi documentari, e anche in qualche fiction, immagini di quell’ambiente abitato da paesaggi di sterminata e drammatica bellezza e da una gente disposta alla contemplazione e timorata degli dei, incline a visitare la montagna girandole attorno piuttosto che a raggiungere la vetta, dimora delle deità, o per lo più al seguito di alpinisti-turisti quali sherpa capaci di portare e accompagnare, solo comparse utili ad altri: comunque, paesaggi e uomini sempre circonfusi di un alone di armonia e religiosità che li situa quasi nella sfera del mito. In questo film invece gli abitanti del villaggio tibetano sono protagonisti di se stessi; all’illustrazione etnografica si aggiunge cioè una ricostruzione di ambiente e di atmosfere dove si svolgono sentimenti e storie di vita vissuta in prima persona. Il regista dice al riguardo: "Preferisco parlare di personaggi piuttosto che di attori, giacché si tratta di uomini e donne senza alcuna esperienza di cinema, che nel film interpretano se stessi e ricordano figure di un romanzo di London o di Conrad (...) Considero questo film un western tibetano, una saga universale e atemporale che racconta una storia di potere, di fierezza e coraggio che potrebbe aver luogo nei mari del Giappone o nel profondo Texas.." E la novità è proprio che l’epopea di passioni e natura in conflitto abbia la sua ambientazione in quel Tibet connotato di solito di armonie sovra-umane, indifferente alle cose del mondo, e qui riportato alla sua vera essenza, alla sua autenticità che somma in sè i caratteri del magico e del tragico.

Ogni anno da Dolpo parte una carovana di persone e yak per un viaggio estenuante, da cui dipende la sopravvivenza, lungo sentieri rischiosi (stupefacente e piena di suspense la scena del pesante yak che precipita dal sentiero a strapiombo sul lago), attraverso passaggi malfermi che potrebbero essere fatali e distese di neve e gelo feroce, per scambiare il sale dell’Alto Tibet col grano delle ubertose vallate nepalesi. Ma questa volta l’uguale fluire delle cose è stato turbato da un lutto: la morte del figlio maggiore di Tinlè, vecchio capo del villaggio, che non accetta la versione dei fatti e fa ricadere la colpa su Karma, l’amico che era con lui, e che paventa ora suo concorrente nel ruolo di capo. L’incomprensione tra i due porta a una divisione e a una duplice spedizione del sale: Karma a capo del gruppo dei giovani, con partenza anticipata sulla data voluta dagli sciamani, e Tinlè, testardo e puntuale, a capo dei vecchi, tra cui trascina pure il nipotino Passang, futuro capo, la giovane nuora vedova e il figlio Narbou, giovane lama educato nel monastero e dedito alla preghiera e alla pittura. Dopo un tragitto incerto e aspro, con difficoltà enormi e sfide estreme degli agenti naturali, questa gente valorosa raggiunge infine il luogo del vitale baratto; dove avviene la pacificazione tra il vecchio, che muore subito dopo, e il giovane, riconosciutisi simili ed entrambi con la tempra del capo, e ritorna la quiete nella comunità.

Dopo una prima parte che porta nel cuore della vita e delle usanze locali, con immagini epiche, di mandrie polverose di yak, di campi di spighe, di panorami maestosi, di vasti spazi e orizzonti, e con immagini umane di abitazioni, di consuetudini familiari, di riti suggestivi e tremendi (come quello funebre che vuole il cadavere tagliato a pezzi offerti sul prato agli avvoltoi pronti a calarvisi), inizia l’epopea, e insieme vengono messi in scena i conflitti che si agitano tra questa gente semplice e arcaica negli stili di vita: tra vecchie e giovani generazioni con la loro lotta per il potere (la sfida anche aspra tra Tinlè e Karma), per il quale arrivano a mettere in subbuglio e in pericolo il vivere di tutta la comunità; tra padre e figlio (Tinlè, dinamico e attento ai bisogni pratici e terreni, Narbou, tutore delle esigenze dello spirito e dell’arte), che qui incarna quello tra la carne e lo spirito, due sfere copresenti e legate, ma di così ardua componibilità, le ragioni dell’una confliggendo con le ragioni dell’altro, entrambi imperiose e vitali; poi, il più spettacolare dal punto di vista visivo, tra uomo e natura, questa non sfondo o contorno ma elemento primario, grandioso e dominatore, arbitro delle esistenze, a cui l’uomo di queste terre si sottomette, dopo averlo affrontato nei limiti delle sue forze, consapevole dell’imparità. La rappresentazione di questi conflitti, restituiti visivamente nel contrasto tra bellezza e terribilità, tra genuinità e crudele durezza, tra colori caldi e asprezze gelide, struttura un’opera sì etnografica, ma percorsa anche da una forza drammaturgica che coinvolge la sfera emotiva e identificatoria.

Il merito del film è di farci scoprire un Tibet normale, spogliato di idealizzazioni, dove gli uomini, nello stile di vita improntato dall’antica cultura e dall’impervio ambiente, sono esseri umani di carne e spirito, di sangue, di amore, di pregiudizi, di competizione e brama di potere, di solidarietà, anche, ma non solo, di preghiera. In primo piano viene messa la tenzone tra bene e male che sono nell’uomo, tra le passioni e la ragione, visibile lo sforzo per il prevalere del bene, avvolto il tutto in un’aura eroico-fiabesca che ha un sapore primordiale.

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