“Terrain vague”: cronache di ordinaria follia metropolitana
Lo spettacolo della Compagnia Käfig, tra arte circense e messaggio impegnato.
Comincia con l’incedere di tre cupi figuri in giacca e cravatta, scandito dallo srotolarsi a ritmo di hip-hop dei metri che tengono stretti tra le mani, lo spettacolo presentato a Trento dalla compagnia Käfig; inizio che, come lo spettatore comprende appieno solo al termine della rappresentazione, preannuncia la vittoria finale delle ruspe e del cemento sugli sparuti lacerti di un mondo naturale in via di estinzione, quello delle periferie, rappresentato sul palco da un vaso di fiori che viene inesorabilmente trascinato al di là della quinta scenica.
In questo scenario urbano, allo stesso tempo desolato e vitale, si muove una strana fauna di diseredati e saltimbanchi che, dopo il passaggio degli imprenditori edili, cominciano a fare capolino l’uno dopo l’altro da dietro una palizzata di legno: insieme al lampione stradale che troneggia al centro del palco, unico ma essenziale elemento della scenografia, continuamente spostata e rimontata a piacimento sulla scena direttamente dai danzatori.
L’atmosfera è volutamente disimpegnata e clownesca, a imitazione di quella circense, retroterra di formazione per gran parte degli elementi della compagnia, coreografo compreso.
Le gag si fondono alla perfezione con lo stile hip-hop, in uno spettacolo leggero ma coinvolgente, che affonda le sue radici nelle performance di strada di break dancer e giocolieri, il cui virtuosismo viene in questo caso nobilitato da una trasposizione scenica in chiave narrativa, che non perde comunque in spontaneità e fluidità dell’azione.
L’unica pecca è forse rappresentata dall’eccessiva ingenuità di alcune scenette, lontane anni luce dalla cruda e nient’affatto poetica brutalità delle periferie metropolitane contemporanee e più vicine allo stralunato immaginario bohémien dell’inizio del secolo scorso. La realtà si mescola infatti con i ricordi di infanzia di Mourad Merzouki e, visti attraverso gli occhi di un bambino, anche i personaggi più malfamati finiscono per assumere i caratteri di vere e proprie caricature.
Fra i momenti più spettacolari, anche se non immuni dal ripetersi di qualche cliché d’ascendenza neocircense, vanno sicuramente annoverate le faticose sospensioni orizzontali dei ballerini che si aggrappano coi soli piedi al fusto dal lampione e i giochi di linee disegnati sulla scena dalle maniche dell’unica attrice in scena, il cui tessuto elastico si tende all’inverosimile, intrappolando i danzatori tra le maglie di quella "gabbia" che richiama il nome stesso della compagnia.